Con il ritorno ufficiale di Trump alla Casa Bianca, la questione della possibile soluzione diplomatica della guerra in Ucraina inizia ad assumere un qualche contorno più definito, in attesa della prima mossa da parte della nuova amministrazione repubblicana che segni in maniera definitiva il cambiamento di rotta rispetto a quella uscente di Joe Biden. Anche se al momento gli elementi concreti sono praticamente inesistenti, le indicazioni che arrivano da Washington fanno intravedere, nella migliore delle ipotesi, un processo molto complicato. Trump e i suoi consiglieri sembrano infatti partire ancora da presupposti sganciati quasi del tutto dalla realtà dei fatti. Senza il riconoscimento e l’accettazione di quanto sta accadendo in Ucraina, qualsiasi eventuale negoziato con Mosca rischia di arenarsi precocemente, prorogando la crisi in maniera pericolosa.

In breve, il problema numero uno che potrebbe ostacolare anche solo l’avvio di una discussione seria è l’illusione che gli Stati Uniti e la NATO in generale dispongano di strumenti di pressione efficaci per convincere la Russia a fare concessioni all’Ucraina e all’Occidente in previsione di un’intesa diplomatica. Lo stesso Trump ha più volte dimostrato prima del suo insediamento di non avere compreso la lezione della guerra in corso ormai da quasi tre anni.

Ancora nelle scorse ore, il neo presidente ha citato numeri relativi alle perdite delle due parti nel conflitto che non hanno nessuna base documentale né, soprattutto, logica. Per Trump, le perdite finora dell’Ucraina sarebbero pari a 700 mila uomini, mentre quelle russe vicine al milione. Se non ci sono dati ufficiali e nessuno dei due governi ha divulgato le proprie stime, la logica della guerra di “attrito” condotta da Mosca, basata sul predominio assoluto dell’artiglieria e delle forze aeree, rende semplicemente impossibile una simile proporzione delle “casualties” tra le due parti. Varie analisi indipendenti del conflitto hanno stimato che, anche alla luce delle difficoltà nel sostenere il ricambio di truppe lungo il fronte, le perdite ucraine sono – come minimo – tre o quattro volte superiori a quelle russe.

Che Trump si auto-illuda oppure si basi su informazioni di intelligence più o meno volutamente errate o, ancora, usi questi numeri come una tattica negoziale è difficile stabilirlo. Resta tuttavia il fatto che, senza una comprensione onesta della situazione sul campo e delle prospettive che ne derivano per le parti belligeranti e i rispettivi alleati, qualsiasi decisione politica venga presa in chiave negoziale rischia di essere inefficace e di screditare la parte proponente agli occhi del suo interlocutore.

Queste problematiche emergono chiaramente se si considerano le informazioni emerse nelle ultime settimane circa le possibili proposte e soluzioni che Trump e il suo staff starebbero valutando per risolvere la crisi ucraina. Il New York Times, ad esempio, ha riportato recentemente la notizia che il neo-presidente potrebbe mettere sul tavolo una proposta di “armistizio” ispirata a quello firmato nel 1953 per mettere fine alla guerra di Corea. Questa ipotesi potrebbe subito incagliarsi, visto che il Cremlino ha sempre sostenuto di non volere nemmeno studiare una soluzione temporanea o di natura limitata, bensì un accordo duraturo e di ampio respiro che getti le basi per una nuova “architettura della sicurezza” in Europa.

Anche entrando nello specifico della proposta, gli scenari cambiano di poco. La tregua in Corea prevedeva varie condizioni, ma l’aspetto centrale era il congelamento delle posizioni dei belligeranti e la creazione di un’area cuscinetto demilitarizzata lungo il confine di fatto al momento della firma dell’accordo. Su questo punto si verificherebbe già il primo elemento di attrito con Mosca. La Russia ritiene non negoziabile il ritiro delle forze ucraine da tutto il territorio che compone le quattro province del Donbass annesse dopo i referendum del settembre 2022 (Donetsk, Lugansk, Kherson, Zaporizhzhia). I russi non controllano integralmente queste aree, anche se l’avanzata negli ultimi mesi appare a tratti inarrestabile.

Molti altri fattori minacciano di complicare le trattative se le posizioni di partenza della Casa Bianca dovessero assomigliare a quelle circolate finora sulla stampa. Trump ha di recente ammesso in un discorso pubblico che l’avvicinamento della NATO alle frontiere russe è motivo di legittima preoccupazione per Mosca, ma nulla fa pensare che il presidente repubblicano abbia intenzione di valutare un arretramento in questo senso o che gli sarà consentito di farlo, né che verrà esclusa ufficialmente la futura adesione dell’Ucraina all’Alleanza.

Una delle questioni più delicate è quella della presenza di armi e soldati NATO sul suolo ucraino. La demilitarizzazione dell’ex repubblica sovietica è un dato imprescindibile per la Russia e lo stesso presidente Putin lo aveva dichiarato, assieme alla “denazificazione”, come uno degli obiettivi delle operazioni militari in Ucraina alla vigilia dell’invasione nel febbraio 2022.

In Occidente si discute invece di un impegno prolungato per garantire armi a Kiev anche in caso di stop alle ostilità. Il Regno Unito, in maniera più simbolica che altro, ha ad esempio da poco sottoscritto con il regime di Zelensky un accordo sulla “sicurezza” di lunga durata, sulla scia di quanto fatto in precedenza da altri paesi. In aggiunta a ciò, molti continuano a ipotizzare l’invio di una sorta di forza di interposizione in Ucraina per garantire che l’aggressione russa non si ripeta.

A Davos per l’annuale appuntamento del World Economic Forum (WEF), Zelensky ha affermato che serviranno almeno 200 mila soldati dai paesi europei per questo scopo. Le cifre fantasiose dell’ex comico amplificano le discussioni che, tra gli altri, Regno Unito e Francia stanno intrattenendo per progettare lo stanziamento di un contingente NATO a garanzia della pace ancora da raggiungere. Anche in questo caso si tratta di auto-inganni o analisi fuori dalla realtà. È chiaro che la Russia non accetterà forze di parte per assicurare il rispetto dei termini di un eventuale accordo.

Lo stesso Trump, secondo quanto riportato questa settimana dalla stampa USA, starebbe considerando una tregua lungo l’attuale linea del fronte, con la creazione di un’area demilitarizzata lunga 1.300 chilometri presidiata da soldati europei. È difficile dire se la proposta sia seria o meno, ma, di nuovo, con premesse simili i negoziati con Mosca non andranno molto lontano. Tutte queste e la maggior parte delle altre ipotesi in circolazione in Occidente sembrano avere il presupposto che la NATO o i soli Stati Uniti partano da una posizione di forza per dettare le condizioni al Cremlino. La storia di quasi tre anni di guerra, di svuotamento dei depositi di armi occidentali e di suicidio economico occidentale ha creato al contrario uno scenario nel quale la Russia sta prevalendo militarmente e, sia pure con ovvie difficoltà, economicamente.

Se non si presterà ascolto alle richieste russe, legittimate dalle condizioni create dalla guerra, non solo la diplomazia finirà subito in un vicolo cieco, ma il conflitto proseguirà e le condizioni che verranno imposte in futuro all’Ucraina saranno ancora più gravose. Trump potrebbe probabilmente decidere di insistere con l’assistenza militare a Kiev prolungando la guerra oppure, come ha scritto proprio mercoledì in un post sul suo Truth Social, imporre ulteriori sanzioni contro la Russia, ma entrambe le opzioni non farebbero che perpetuare la situazione degli ultimi tre anni, senza produrre esiti differenti.

La nuova amministrazione repubblicana appare comunque decisa a liquidare la grana ucraina, se non altro per interrompere il drenaggio di risorse che sono necessarie all’offensiva che si annuncia contro la Cina. Il segretario di Stato appena confermato dal Senato, Marco Rubio, lo ha confermato lunedì ai media americani, annunciando che Trump inizierà “immediatamente” a lavorare a una tregua in Ucraina. L’ex senatore della Florida ha avvertito che sia Kiev sia Mosca dovranno fare qualche concessione per arrivare a un accordo, ma nessuna indicazione concreta su come il nuovo governo americano intende muoversi è stata per il momento rivelata ufficialmente.

Andando per gradi e volendo trovare quanto meno un elemento incoraggiante, la Casa Bianca continua a ripetere che si sta lavorando a una telefonata preliminare tra Trump e Putin, che dovrebbe avvenire già nei prossimi giorni. Dal Cremlino c’è disponibilità a ristabilire un dialogo con Washington e, nonostante la fermezza delle posizioni, gli uomini di Putin e lo stesso presidente pubblicamente sembrano non volere insistere troppo nel ricordare i punti fermi che i loro interlocutori occidentali e il regime di Zelensky dovranno accettare per far partire le trattative. Sempre nelle prime ore del suo secondo mandato, infine, Trump ha licenziato o sospeso parecchi funzionari di carriera del dipartimento di Stato e della Difesa coinvolti in prima persona nella disastrosa gestione del “file” Ucraina.

Al di là di queste prime mosse, occorrerà capire quale sarà la disposizione americana, ma anche europea e russa, sui nodi cruciali della crisi. Riassumendo, l’analista russo Dmitry Suslov ha spiegato in un’intervista alla rete russa RT come “ci siano linee rosse a cui nessuna delle due parti intende rinunciare”. Gli Stati Uniti e Trump vogliono che l’Ucraina sia “un paese forte militarmente e strettamente legato all’Occidente”, mentre la Russia insiste perché diventi un paese neutrale con forze armate “significativamente ridotte”.

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