Nel terzo giorno della tregua a Gaza, la fragile pace dopo oltre quindici mesi di orrore sembra resistere nonostante le forze di occupazione israeliane abbiano iniziato una nuova operazione repressiva contro la resistenza palestinese in Cisgiordania. In questa prima fase dell’accordo sottoscritto a Doha tra Netanyahu e Hamas, si stanno accendendo le discussioni sui motivi che hanno convinto Tel Aviv a fermare il genocidio e le due amministrazioni americane a fare pressioni in maniera decisiva sul regime sionista per accettare i termini del cessate il fuoco. Le dinamiche degli ultimi mesi in Medio Oriente, a loro volta modellate dagli eventi del 7 ottobre 2023 e dalla successiva reazione israeliana, sono evidentemente un fattore, ma il cambiamento del clima nella regione in apparenza favorevole allo stato ebraico è solo una parte della storia, visto che, di fatto, nessuno degli obiettivi fissati da Netanyahu all’inizio della brutale aggressione nella striscia è stato raggiunto al momento della firma dell’accordo con Hamas.

Non ci sono dubbi che la guerra di questi mesi abbia causato danni immensi alla popolazione e alle infrastrutture di Gaza. Il numero ufficiale di morti sotto i bombardamenti israeliani, anche se già di per sé enorme, è con ogni probabilità di molto sottostimato rispetto a quello reale. Le immagini delle strade e delle città della striscia circolate nuovamente nelle ore successive all’entrata in vigore della tregua hanno inoltre chiarito che il ritorno a un minimo di normalità richiederà sforzi immani e anni di lavoro. Malgrado ciò, Hamas e la resistenza palestinese non sono stati spazzati via e, anzi, ancora poco prima della firma sull’accordo in Qatar i combattenti di Gaza sono stati in grado di infliggere perdite pesanti alle forze israeliane.

Il prezzo pagato dalla popolazione è evidentemente incalcolabile. In termini politici e sul lungo periodo, tuttavia, è difficile non valutare l’esito – probabilmente momentaneo – del conflitto come una vittoria per la Palestina e Hamas. Questa conclusione è inevitabile se si considerano, come accennato all’inizio, gli obiettivi stabiliti a ripetizione da Netanyahu per la guerra a Gaza. La distruzione nientemeno che totale di Hamas e il ritorno per mezzo della forza dei prigionieri fatti dal movimento di liberazione il 7 ottobre 2023 non hanno infatti avuto luogo.

Anche visivamente, gli uomini di Hamas sono tornati subito al centro della scena in concomitanza con il rilascio dei primi cittadini israeliani liberati come previsto dall’accordo per il cessate il fuoco. Il ricorso alla forza da parte di Israele, poi, ha se mai provocato la morte di un numero imprecisato di “ostaggi”, mentre la loro liberazione è stata possibile solo dopo l’accettazione di una tregua con Hamas. La sconfitta di Netanyahu è ancora maggiore se si considera l’obiettivo espresso solo per vie traverse, in particolare dai suoi partner ultra-radicali di governo e da altri esponenti sionisti più al limite dello squilibrio, ovvero la pulizia etnica totale di Gaza e la rioccupazione del territorio palestinese.

Hamas resta la forza dominante nella striscia, per stessa ammissione, alcuni giorni fa, del segretario di Stato USA uscente Blinken, che aveva affermato come gli uomini del movimento islamista siano oggi più numerosi rispetto all’inizio dell’aggressione israeliana. Tutto ciò non significa minimizzare le perdite e la distruzione causata a Gaza, ma è fondamentale non perdere di vista il dato relativo all’equilibrio delle forze in campo che mai ha fatto immaginare una vittoria totale sul campo di Hamas o, ad esempio, una riconquista di territori occupati dallo stato ebraico.

In questa prospettiva è cruciale chiedersi che genere di vittoria resti a Netanyahu e al suo stato di apartheid senza nessun obiettivo politico conseguito in quindici mesi di guerra. I sentimenti della parte di popolazione israeliana che costituisce la base più solida dell’attuale esecutivo israeliano, vale a dire i coloni illegali, sono altamente sintomatici del significato percepito della tregua. La stampa israeliana ha raccontato in questi giorni dell’opinione diffusa di assistere a un fallimento e a un tradimento da parte di Netanyahu per una vittoria totale che resta un miraggio, così come il ristabilimento di un deterrente efficace per garantire la sicurezza del paese.

Questa disposizione prevalente in Israele spiega in parte la retorica sia di Netanyahu sia degli ambienti più estremi della sua maggioranza, guidati dai ministri dimissionari Ben-Gvir e Smotrich. Tutti stanno ripetendo che la tregua è solo provvisoria e che, una volta ultimata la prima fase o comunque dopo il ritorno a casa di tutti gli “ostaggi”, la guerra riprenderà e con il beneplacito di Trump. Una prospettiva, quest’ultima, tutt’altro che improbabile se si considera l’identificazione pressoché totale con la causa sionista del neo-presidente repubblicano e del suo entourage.

Secondo praticamente tutte le ricostruzioni dei media ufficiali è stata in ogni caso proprio la mediazione di Trump e del suo inviato per il Medio Oriente, Steve Witkoff, a risultare decisiva per mettere fine al genocidio, quanto meno temporaneamente. Per certi versi ciò corrisponde a verità e rappresenta un pesante atto d’accusa per un’amministrazione Biden che ha invece tergiversato a lungo pur disponendo degli strumenti per spingere Netanyahu a fermare l’aggressione militare. D’altro canto, non va dimenticato che la retorica dell’ormai ex presidente democratico e del suo staff, che tendeva a descrivere l’amministrazione democratica perennemente al lavoro per un cessate il fuoco, è sempre stata fuorviante.

Nella realtà dei fatti, Biden ha appoggiato su tutta la linea le operazioni israeliane, incluso il genocidio palestinese, poiché tramite esse confidava in una sconfitta strategica per l’asse della resistenza in Medio Oriente. In altre parole, la reazione di Tel Aviv al “Diluvio di al-Aqsa” portato a termine da Hamas è stata da subito rivolta verso obiettivi più ampi della liquidazione del movimento che governa Gaza e uno di essi era quello di ristabilire la superiorità strategica e militare di Israele nella regione, assestando colpi mortali ai propri rivali, a cominciare da Iran e Hezbollah. Questo obiettivo è pienamente condiviso da Washington e per questa ragione i tentativi di fermare la strage di palestinesi non sono mai andati al di là della retorica.

Il cambiamento di rotta è stato determinato perciò dalle vittorie, anche se puramente tattiche, ottenute da Israele e Stati Uniti in Libano e in Siria. Il cambio di passo di Netanyahu nel primo paese lo scorso settembre, con l’assassinio tra gli altri del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, ha innescato una serie di cambiamenti politici che hanno portato, oltre al relativo indebolimento del “Partito di Dio”, alla nomina di un presidente e di un primo ministro filo-occidentali – rispettivamente il generale Joseph Aoun e il presidente della Corte Internazionale di Giustizia Nawaf Salam – non sgraditi a Tel Aviv. A ciò va aggiunto l’accordo per la tregua con Hezbollah che ha stabilito il ritiro delle forze del partito/movimento sciita oltre il fiume Leonte (Litani), così da creare quella zona cuscinetto che Israele ritiene cruciale per la propria sicurezza.

In Siria, invece, è com’è noto la caduta repentina del governo di Assad per mano dei qaedisti riciclati in “eroi della libertà” di Hayat Tahrir al-Sham (HTS) ad avere aperto le porte all’occupazione di un’ulteriore porzione di questo paese da parte israeliana. L’uscita di scena di un elemento chiave sul piano politico, militare e logistico della resistenza è stata accolta con euforia a Tel Aviv, anche se la vittoria, così come in Libano, è appunto per ora solo di natura tattica, avendo determinato un drastico aumento dell’influenza della Turchia sulla Siria, in prospettiva cioè un elemento di competizione per lo stato ebraico nella regione.

Per il momento e alla luce del rapido diffondersi del senso di disgusto in tutto il mondo per i metodi genocidi di Israele e la complicità americana, i cambiamenti descritti hanno favorito la tregua siglata ufficialmente lo scorso fine settimana. Nella logica di Netanyahu la prosecuzione della guerra sembrava essere un elemento determinante, tanto da far pensare a molti che l’allargamento del fronte all’Iran fosse solo questione di tempo. Se così dovesse essere lo si scoprirà probabilmente nel prossimo futuro, dopo l’assestamento inziale della nuova amministrazione Trump.

Ciò che il neo-presidente, e peraltro anche Biden, sembra tenere in considerazione è però anche la necessità di stabilizzare il Medio Oriente con la normalizzazione dei rapporti tra lo stato ebraico e i regimi arabi sunniti che ancora mancano all’appello, primo fra tutti quello saudita. Come hanno chiarito i fatti di questi mesi, la monarchia wahhabita non può prescindere da una qualche soluzione al problema palestinese per avviare il processo inaugurato dai cosiddetti “Accordi di Abramo” e il completamento della pulizia etnica a Gaza non era esattamente un’opzione accettabile in questo senso.

Nei calcoli di Washington, i colpi subiti dalla resistenza in Libano, in Siria e a Gaza sono per il momento sufficienti a mettere all’angolo la Repubblica Islamica e a promuovere la riconciliazione tra Israele e l’Arabia Saudita in funzione di un consolidamento dell’influenza americana nella regione. Da qui l’opportunità di fermare la strage a Gaza. Ciò che resta in dubbio è la prossima mossa di un Netanyahu indebolito politicamente sul fronte interno ed esposto alle critiche dell’ultra-destra che ha coltivato il sogno della “Grande Israele” e assiste ora invece a una brusca frenata.

Tutto da valutare sarà quindi il modo in cui il premier israeliano si concilierà con le direttive americane sulla tregua. Sempre che Trump non finisca per prestare attenzione agli ambienti “neo-con” ultra-sionisti, ancora una volta ben rappresentanti nella sua seconda amministrazione, e dare il via libera a una nuova fase della violenza, se non addirittura a un attacco contro l’Iran per scatenare un’offensiva finale contro la resistenza. Un piano che rischierebbe però di dare il colpo di grazia non a quest’ultima, ma proprio al progetto sionista e alle ambizioni degli Stati Uniti nella regione mediorientale.

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