Una rivelazione pubblicata questa settimana dal quotidiano libanese Al Akhbar ha contribuito a fare luce sui complessi obiettivi del regime sionista di Netanyahu nell’operazione militare in corso nel “paese dei cedri”. Essendo la notizia collegata a un’iniziativa dell’ambasciatrice americana a Beirut, lo stesso articolo ha chiarito di conseguenza anche come Washington e Tel Aviv siano sostanzialmente sulla stessa lunghezza d’onda per quanto riguarda l’aggressione contro il Libano, al di là della retorica ufficiale che vorrebbe l’amministrazione Biden impegnata disinteressatamente per una tregua sul fronte settentrionale israeliano.

Entrambe le questioni vanno ricondotte alla natura settaria della società e della politica libanesi. Natura alimentata sia dalla classe dirigente indigena sia, soprattutto, dalle potenze straniere che competono per esercitare la loro influenza su un paese strategicamente cruciale per gli equilibri mediorientali. Le divisioni religiose e le tensioni sociali che derivano da esse e dai problemi cronici del paese vengono in definitiva sfruttate da Israele e Stati Uniti con l’obiettivo di indebolire e isolare la componente sciita o, più precisamente, la Resistenza che fa riferimento a Hezbollah.

Decisiva in questa strategia è la collaborazione dei settori filo-occidentali e filo-israeliani della società e della politica del Libano, i quali, pur nel discredito in cui tradizionalmente versano, in questo frangente di profonda crisi sono in grado di ritagliarsi un qualche spazio come difensori della “sovranità” del paese contro coloro che lo avrebbero venduto all’Iran. Messa in altri termini, la questione ha a che fare con il tentativo di rendere insostenibili le pressioni interne ed esterne su Hezbollah, piegando il “Partito di Dio” fino a costringerlo a cedere potere e influenza, assieme alle armi, alle forze e alle istituzioni dello stato, possibilmente guidate da elementi manovrati dall’Occidente e dallo stato ebraico.

Questi obiettivi sono diventati un’occasione e assieme una necessità con l’evolversi del conflitto esploso a Gaza dopo il 7 ottobre dello scorso anno. L’intensificarsi delle operazioni di Hezbollah in territorio israeliano a sostegno della causa palestinese ha gettato Netanyahu e il suo regime genocida in una crisi senza precedenti, aggravata dall’evacuazione forzata di decine di migliaia di coloni dalle aree al confine con il Libano. Ciò ha portato Tel Aviv alla decisione di aprire un secondo fronte della guerra, con Hezbollah nel mirino per ristabilire gli equilibri favorevoli all’entità sionista.

Le rivelazioni di Al Akhbar dei giorni scorsi rendono dunque più chiaro il quadro descritto. Secondo quanto riferito da fonti libanesi di “alto livello”, l’ambasciatrice USA, Lisa Johnson, si sarebbe mobilitata con i politici libanesi per preparare il “dopo Hezbollah”, puntando sulle forze interne che si oppongono al partito/milizia sciita. La diplomatica americana ha spiegato ai suoi interlocutori che “Israele non può raggiungere tutti gli obiettivi attraverso la guerra” ed è perciò tempo che i politici favorevoli a USA e Israele facciano “la loro parte”, lanciando una sorta di “rivolta domestica” contro Hezbollah.

È interessante notare come questa attitudine debba caratterizzare Hezbollah come un nemico interno che prende ordini da Teheran, mentre i suoi rivali risultano essere animati da uno spirito patriottico e impegnati a difendere la sovranità del Libano. In realtà, l’operazione israelo-americana punta a sfruttare le conseguenze del genocidio a Gaza per liquidare la Resistenza libanese, ovvero l’unica fazione che promuove realmente l’indipendenza del paese, e riassegnarne il controllo politico e militare alle forze letteralmente vendute a Stati Uniti e Israele. Di riflesso, questa soluzione darebbe un colpo mortale al vero nemico di questi ultimi nella regione, vale a dire la Repubblica Islamica.

La strategia americana veicolata dall’ambasciatrice Johnson include le macchinazioni politiche per arrivare finalmente all’elezione del nuovo presidente libanese, carica vacante fin dalla conclusione del mandato di Michel Aoun nell’autunno del 2022. La Johnson, sempre secondo le fonti di Al Akhbar, avrebbe sollecitato i politici libanesi a nominare il comandante delle forze armate, Joseph Aoun, il quale favorirebbe un intervento americano per rafforzare l’esercito del paese, in grado così di limitare i margini d’azione di Hezbollah. In ciò, i politici libanese al servizio di Washington e Tel Aviv avrebbero anche l’appoggio dei regimi arabi sunniti e degli altri paesi occidentali, tutti in sostanza allineati all’agenda americana e israeliana di guerra a tutto campo contro la Resistenza.

Nelle parole dell’ambasciatrice Johnson si rileva tuttavia una certa urgenza nell’invitare i suoi interlocutori all’azione. La diplomatica americana si premura di ricordare che Hezbollah è stato fortemente indebolito dagli attacchi israeliani e la sua leadership decapitata. Grazie a tutto questo, l’opposizione libanese dovrebbe prendere l’iniziativa e mobilitarsi contro la Resistenza. Questa fretta rivela le gravi preoccupazioni che l’amministrazione Biden e lo stesso regime di Netanyahu nutrono per un’operazione militare che, nonostante le quotidiane stragi di civili e la distruzione diffusa, sul campo sta andando molto male per lo stato ebraico e che, nel prolungarsi indefinitamente, rischia di trasformarsi in una trappola.

L’altra faccia della strategia americana promossa dall’ambasciatrice a Beirut è l’attività diplomatica – o presunta tale – dell’inviato speciale di Biden per il Libano, Amos Hochstein, nativo di Gerusalemme ed ex militare nelle forze di occupazione israeliane. Ben lontano dal favorire un accordo per un cessate il fuoco equo, Hochstein si sta adoperando per una penetrazione degli interessi israeliani in Libano, manovrando politicamente le varie fazioni anti-Hezbollah per arrivare a una soluzione che cambi gli equilibri sul terreno. Esempio lampante di ciò è il tentativo di rivedere, modificare o rilanciare unilateralmente e a favore di Tel Aviv alcune risoluzioni ONU relative al Libano e al conflitto Israele-Hezbollah.

In tutti i casi, l’intenzione è sempre quella di ridurre le potenzialità del “partito di Dio” e fare della classe dirigente libanese un docile strumento nelle mani del regime sionista, neutralizzando di conseguenza qualsiasi minaccia derivante dal fronte settentrionale. Le manovre politiche americane passano evidentemente attraverso il coordinamento tra le forze politiche contrarie alla Resistenza, con al centro le famigerate Forze Libanesi cristiane del criminale di guerra Samir Geagea.

Un altro elemento determinante nella strategia israeliana è il costante bombardamento delle aree di Beirut e nel resto del paese a maggioranza sciita, non tanto o non solo per prendere di mira leader e comandanti di Hezbollah, quanto per trasformare in rifugiati interni gli appartenenti a questa componente della società libanese. In questo modo, USA, Israele e i rispettivi referenti in Libano possono alimentare per i loro scopi le divisioni settarie e indebolire appunto la minoranza sciita e cercare di separare quest’ultima da Hezbollah o, nella peggiore delle ipotesi, scatenare qualcosa di molto simile a una guerra civile. Un’operazione che ribadisce, se mai fosse necessario, il grado di criminalità di Washington e Tel Aviv, vista anche la storia recente del Libano, segnata dal sanguinoso conflitto interno durato dal 1975 al 1990 con un bilancio di qualcosa come 150 mila vittime.

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