Per due giorni, il 24 e il 26 ottobre, la città russa di Kazan ospiterà il vertice dei BRICS. I partecipanti chiedono una riforma democratica e inclusiva delle organizzazioni monetarie, finanziarie e commerciali per affrontare i gravi squilibri globali. Al centro del processo di aggregazione dei BRICS c'è, infatti, la riscrittura delle regole sistemiche che implica una profonda riforma del sistema di governance globale.

Più in generale, chiedono un nuovo sistema di regole condivise piuttosto che imposte, basato su un concetto semplice: che è impensabile in linea di principio legare l'economia internazionale a una moneta unica e che il suo utilizzo deve essere autorizzato da chi la emette. Infine, si riconosce che la complessità del sistema delle transazioni finanziarie rende obsoleta un'unica procedura e un unico codice decisi da un unico Paese, che assume così il ruolo di autorità assoluta. Con un mercato senza precondizioni politiche e senza sanzioni unilaterali decise al di fuori - e spesso contro la volontà - della comunità internazionale.

Nei media atlantisti, l'eterogeneità dei BRICS viene sottolineata enfatizzando i loro presunti limiti politici strutturali, cercando così di ridurre il loro valore alla contingenza e non riconoscendone l'importanza strategica. Sebbene l'eterogeneità tra i diversi Paesi, compresi gli stessi fondatori, sia evidente, questa visione, oltre che egoistica, appare limitata, perché si basa su uno schema novecentesco, che considerava l'identità ideologica come un prerequisito per l'azione congiunta, il primo stadio di un'alleanza politico-strategica. Questo non significa che i BRICS siano il tempio dell'unità o che non ci siano differenze interne, tanto meno che non ci sia uno squilibrio tra il peso dei giganti e quello dei Paesi più piccoli. Ma il punto di riferimento di una presunta omogeneità non può essere il modello occidentale, dove nonostante le differenze uno comanda e 54 obbediscono.

Oggi, molti Paesi - a volte delle dimensioni di un continente - si uniscono per ciò che non vogliono e per ciò che conviene loro, non per una dottrina ideologica. Questo non toglie nulla alla necessità di sviluppo globale da parte dei BRICS, tanto più che la crescente influenza che avranno sulla costruzione della ricchezza mondiale e sulla sua distribuzione farà reagire l'impero decadente. Che da qualche anno ha deciso di reimpostare profondamente il suo modello produttivo, riconvertendolo in chiave bellica e facendone l'asse centrale del suo ciclo economico.

La tendenza alla guerra sembra essere l'unica politica estera dell'Occidente collettivo, che assegna ai suoi proxy il compito di preservare con le armi le zone in cui gli interessi imperiali si articolano. Così la Gran Bretagna, la Romania, gli Stati Baltici e l'Ucraina in Europa (dove la NATO ha spostato il centro operativo nella parte orientale), Israele in Medio Oriente, il Giappone, la Corea del Sud e l'Australia nel Pacifico, l'Argentina, l'Ecuador e il Cile in America Latina.

Il motivo è ovvio: con l'ascesa di un blocco in espansione che porta con sé potere politico, diplomatico, economico e militare e che esercita un'influenza crescente nelle varie arene di crisi e nelle relazioni internazionali in generale, il dominio dell'impero anglosassone viene seriamente eroso alle sue fondamenta. I 52 Paesi dell'Occidente collettivo osservano da una decina d'anni che questo fronte alternativo sta progressivamente aumentando - spesso con improvvise accelerazioni - il suo peso specifico e che avanza a passi da gigante verso la costituzione di un blocco politico.

 

Lo guerra è il modello

Il mondo è di fronte ad una crisi irreversibile di un sistema unipolare che ha portato guerre e distruzioni senza eguali nella storia dell'umanità e che mantiene questo profilo come essenza del suo dominio. Un impero che ha perso l'opportunità che aveva alla sua nascita, nel 1991, per un miglioramento generale dell'economia, per ridurre il divario sociale, per portare alla pacificazione mondiale e allargare la sfera della democrazia. È successo il contrario, perché ha prevalso la finanziarizzazione dell’economia che si fonda su un capitalismo senza capitali in alternativa al reale sviluppo economico e che compete con le economie emergenti seppellendole di sanzioni per prevalere nei mercati. E’ con la speculazione finanziaria e con le guerre che la ricchezza si accumula e si concentra nel Nord e la povertà nel Sud.

E’ ampiamente certificato il fallimento del suo modello socioeconomico e risulta sfacciato il processo di accumulazione in antagonismo al governo delle contraddizioni internazionali. Basta vedere come le principali vie di arricchimento finanziario sono misurate dalle compagnie belliche (che vivono di guerre) da Big Pharma (che guadagna immensamente dalla medicalizzazione delle società e delle pandemie) e dalle compagnie che controllano il sistema di comunicazione (che gestiscono in forma autoritaria le fonti di informazione e le manipolano per dare consenso al sistema e al suo establishment ed impedire ogni dissenso). In altre parole, il modello dominante si basa su guerre, malattie e bugie.

C'è incompatibilità tra la pace nel mondo e la sopravvivenza di questo ordine imperiale e le guerre che imperversano sul pianeta hanno un'origine chiara: il tentativo di espansione verso est della NATO, oggi unica voce del capitalismo imperiale, e i tentativi di destabilizzazione politica generati in Europa orientale dagli inglesi e dai baltici, la colonizzazione genocida del Medio Oriente da parte di Israele e le marionette dell'impero in America Latina.

Secondo l'edizione 2024 del Global Peace Index, pubblicata a giugno dall'Institute for Economics & Peace, ci sono 56 conflitti attivi, il numero più alto mai registrato dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. L'Indice, principale indicatore mondiale della pace, utilizza 23 indici qualitativi e quantitativi provenienti da fonti affidabili e misura lo stato di pace di 163 Stati e territori in tre aree: il livello di sicurezza e protezione sociale, l'entità dei conflitti interni e internazionali e il grado di militarizzazione.

Secondo i risultati della ricerca, il livello medio di pace è diminuito per la dodicesima volta negli ultimi 16 anni. Su 163 Paesi, 97 hanno registrato un peggioramento. L'impatto sull'economia è evidente: l'impatto economico globale nel 2023 è stato di 19.000 miliardi di dollari, circa 2.380 dollari a persona. Un aumento di 158 miliardi rispetto al 2022. Per contro, la spesa per il peacebuilding e il mantenimento della pace ammonta a meno dello 0,6% della spesa militare totale. Si tratta di denaro che servirebbe all'unica guerra giusta, quella contro la povertà e la disuguaglianza, ma che viene speso per guerre che aumentano la povertà e la disuguaglianza.

La pace è incompatibile con l'espansione economica degli Stati Uniti, perché le guerre sono proprio lo strumento fondamentale per la loro forza economica e la loro influenza politica, oltre che per giustificare il mantenimento delle 800 basi militari e delle 6 flotte nucleari in tutto il mondo e la costante espansione della Comunità di Intelligence degli Stati Uniti, l'agenzia federale di spionaggio che comprende 18 agenzie e organi del governo federale degli Stati Uniti ed è finanziata con 58 miliardi di dollari all'anno, senza contare le Azioni Hedge che sono coperte da fondi riservati, donazioni private e profitti dei traffici.

Tuttavia, questo scenario drammatico non deve essere legato esclusivamente all'incapacità di governare l'ordine unipolare a livello globale. A questo aspetto, pur rilevabile, va aggiunta una dimensione volontaria, ovvero la costruzione occidentale della destabilizzazione internazionale. È uno degli obiettivi preminenti, ancorato alla centralità del complesso militare-industriale statunitense, ora in estensione osmotica all'UE e al Giappone.

Perché se il nemico ha nomi variabili, l'obiettivo resta inequivocabile, e se le guerre non esistono, vanno costruite.

Il “terrorismo internazionale” e l'“ingerenza umanitaria” (inventati per disintegrare contesti regionali ostili) sono stati gli strumenti con cui evitare la diminuzione del ruolo del complesso militare dopo la scomparsa del nemico storico, insieme al rifiuto di prendere in considerazione l'interazione tra Russia e NATO, argomento sui tavoli dei ministeri degli Esteri nei primi anni Novanta.

A medio-lungo termine, pur con la difficoltà dei processi e la coesione politica dei suoi attori, è chiaro che un'alternativa è necessaria di fronte alla crisi strutturale e definitiva di un modello dominante che porta con sé anche crisi militari ai quattro angoli del pianeta dagli esiti imprevedibili.

Circa trenta milioni di morti dal 1945 sono il bilancio della sopravvivenza del sistema. Salvare il ruolo degli Stati Uniti come poliziotto del mondo significa salvare il loro complesso militare-industriale, e salvare quest'ultimo richiede guerre permanenti. E poi, come dimostrano l'Afghanistan, la Siria e l'Ucraina, perdono regolarmente.

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