Come accade puntualmente ad ogni iniziativa di paesi o entità rivali, la propaganda occidentale e, nel caso del Medio Oriente, dello stato ebraico si è subito scatenata anche dopo l’attacco missilistico iraniano di martedì sera contro Israele. La falsificazione della realtà di questa operazione e del contesto in cui è avvenuta è fondamentale per tenere in piedi quel poco che resta della credibilità di Netanyahu e del suo regime genocida agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, ma anche per giustificare un’eventuale ritorsione che Tel Aviv ha peraltro già minacciato. Il massiccio lancio di missili da parte di Teheran è stato tuttavia legittimo alla luce dei numerosi atti di terrorismo di Israele e, oltretutto, è stato deciso solo dopo che la leadership della Repubblica Islamica aveva evidenziato una pazienza strategica decisamente sproporzionata rispetto alle provocazioni subite in questi mesi.

Tra la nebbia della propaganda americana e israeliana e al netto delle condanne a senso unico, che mai riguardano i crimini sionisti, anche una sommaria ricostruzione degli eventi succedutisi nelle settimane precedenti il bombardamento di martedì dimostra come l’Iran non avesse altra scelta e sia stato spinto ad agire, oltre che dagli attacchi ordinati da Netanyahu, dalla doppiezza, dalla malafede e dall’inettitudine dell’amministrazione Biden.

La campagna militare di Israele è stata finora un crescendo di provocazioni che hanno a poco a poco messo con le spalle al muro praticamente tutte le componenti dell’Asse della Resistenza. In questo confronto, sono state queste ultime a esercitare cautela, nel timore di scatenare un conflitto su vasta scala dalle conseguenze rovinose per tutte le parti coinvolte. Tel Aviv e Washington hanno scambiato questa prudenza per debolezza, favorendo un’escalation continua, con l’obiettivo di costringere il nemico a piegarsi alle proprie esigenze strategiche.

Questa dinamica sembrava dover funzionare, almeno dal punto di vista di Netanyahu, anche dopo l’assassinio a Teheran del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, e quello della settimana scorsa a Beirut del segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah. Nel concreto, la brutale offensiva lanciata in Libano doveva servire a convincere Hezbollah a cessare i bombardamenti sul nord di Israele e accettare un cessate il fuoco che consentisse il ritorno dei coloni nelle loro abitazioni nel nord di Israele e di non distogliere l’attenzione delle forze sioniste dalla strage a Gaza.

Non solo Hezbollah non ha mostrato cedimento malgrado la liquidazione di numerosi uomini di vertice, ma anche l’Iran ha agito per la seconda volta in meno di sei mesi, ribaltando, almeno per il momento, gli equilibri del conflitto. L’operazione di Teheran di martedì è arrivata comunque solo dopo una rigorosa analisi delle circostanze strategiche e diplomatiche prodotte dall’escalation israeliana. Anzi, l’Iran aveva offerto nelle settimane seguite all’assassinio di Haniyeh ampie opportunità agli Stati Uniti e ai loro alleati occidentali per ridurre le tensioni, frenare la violenza sionista e finalizzare una tregua con Hamas.

Gli Stati Uniti avevano con ogni probabilità recapitato a Teheran un messaggio di disponibilità a fare pressioni su Netanyahu per accettare una soluzione diplomatica in cambio della rinuncia da parte iraniana a mettere in atto una ritorsione contro Israele. Queste manovre avevano trovato terreno fertile nell’attitudine del nuovo presidente iraniano, Masoud Pezeshkian, che in più di un’occasione si era mostrato disponibile a riaprire trattative diplomatiche con gli USA e l’Occidente, da ultimo anche in occasione della 79esima Assemblea Generale delle Nazioni Unite meno di due settimane fa.

La posizione di Pezeshkian non era verosimilmente condivisa dalla guida suprema della rivoluzione, Ali Khamenei, né dai Guardiani della Rivoluzione. È probabile però che la leadership della Repubblica Islamica abbia accettato temporaneamente questa linea, anche perché il neo presidente aveva vinto le elezioni seguite alla tragica morte del suo predecessore, Ebrahim Raisi, con un programma appunto di riconciliazione con l’Occidente per mettere fine alle sanzioni e rilanciare l’economia iraniana.

Alla fine, quella americana si è dimostrata solo una tattica dilatoria, ovvero un inganno, che anche lo stesso Pezeshkian ha riconosciuto dopo il precipitare della crisi in Libano. Nonostante la pretesa di Biden e del suo entourage di essere “furiosi” con Netanyahu e di lavorare per una de-escalation, è circolata anche pubblicamente la conferma che la Casa Bianca aveva dato il via libera agli attacchi in Libano. Incluso l’assassinio di Nasrallah, autorizzato in maniera ultra-provocatoria da Netanyahu durante la sua visita a New York per l’Assemblea Generale ONU e, secondo quanto affermato dal ministro degli Esteri libanese, dopo che il leader di Hezbollah aveva accettato i termini di una tregua proposta da alcuni governi occidentali.

Un altro aspetto cruciale dell’iniziativa iraniana è il probabile coordinamento con gli alleati “strategici” di Russia e Cina. In particolare, la decisione di lanciare centinaia di missili sul territorio israeliano è stata presa all’indomani della visita a Teheran del primo ministro russo, Mikhail Mishustin. Il summit era programmato da tempo e doveva toccare argomenti legati alle relazioni economiche tra i due paesi. È tuttavia scontato che al centro delle discussioni ci siano state anche le preparazioni per l’attacco e la rassicurazione del Cremlino in vista di una ritorsione israeliana o di nuove sanzioni americane.

Ciò su cui si sta concentrando ora l’attenzione di tutti i governi e degli osservatori è il prossimo passo che intenderà fare Netanyahu e, ancora di più, quale posizione assumerà il governo americano davanti alla possibilità dell’esplosione di una guerra di proporzioni mai viste in Medio Oriente. I “falchi” occidentali e molti in Israele hanno sollecitato un attacco contro le installazioni nucleari civili della Repubblica Islamica. Biden si è detto contrario in un’intervista delle scorse ore, sia pure sostenendo l’ipotesi della ritorsione. Anche senza arrivare a colpire i siti nucleari, è plausibile che il regime sionista stia smaniando per un’operazione massiccia che, come hanno già avvertito da Teheran, sarebbe seguita a sua volta da una nuova ondata di missili decisamente più distruttiva di quella di martedì scorso.

È chiaro che il comportamento di Netanyahu sarà influenzato dall’atteggiamento americano. Per il momento sono arrivati messaggi contraddittori da Washington, dove qualche esponente dell’amministrazione democratica ha sottolineato la gravità dell’attacco iraniano, mentre altri hanno cercato di minimizzare i danni subiti da Israele, verosimilmente per tenere basse il più possibile le tensioni ed evitare il meccanismo dell’escalation.

La logica di Netanyahu osservata negli ultimi dodici mesi non lascia in ogni caso immaginare nulla buono. Sarà da valutare se l’amministrazione Biden, dentro la quale persistono diversi punti di vista su Israele e la crisi in corso, stia prendendo in considerazione i rischi della scelta fatta finora di assecondare in tutto e per tutto il delirio sionista. Nonostante l’ostentazione di forza di Netanyahu e il tentativo americano di far credere che Tel Aviv agisce in maniera indipendente quando in gioco c’è la propria “sicurezza”, tutti i leader israeliani sanno perfettamente che nessuna operazione significativa nella regione è possibile senza l’appoggio militare degli Stati Uniti.

Ci sono pochi dubbi che un attacco di vasta portata da parte israeliana causerebbe danni enormi alla Repubblica Islamica, ma il punto è prevedere quali conseguenze avrebbe un ulteriore contrattacco iraniano, sia per lo stato ebraico e gli interessi americani in Medio Oriente sia per l’economia globale. La quota di missili iraniani arrivata indisturbata a destinazione martedì sul territorio israeliano è senza dubbio molto vicina al 90% ostentato dal governo di Teheran e, inoltre, la precisione dimostrata nel colpire gli obiettivi militari prestabiliti è apparsa ugualmente straordinaria.

Le capacità e le dotazioni dell’Iran sono ancora maggiori di quelle mostrate martedì, soprattutto riguardo ai missili ipersonici totalmente fuori dalla portata della contraerea israeliana e americana. Come hanno avvertito in molti in queste ore, le conseguenze di una controffensiva iraniana per Israele potrebbero essere senza precedenti, tanto più se dovessero partecipare, come appare scontato, le altre componenti della resistenza, dallo Yemen all’Iraq, dalla Siria al Libano.

Washington deve mettere a sua volta in conto una pioggia di missili sulle proprie basi in Medio Oriente, mentre a finire in fiamme sarebbero anche le installazioni petrolifere delle monarchie sunnite del Golfo. L’Iran potrebbe infine chiudere lo stretto di Hormuz, innescando una crisi energetica gigantesca con conseguenze catastrofiche in tutto il pianeta. Qualunque sia l’evoluzione della crisi nei prossimi giorni, il mito della superiorità o addirittura dell’invincibilità di Israele è stato distrutto per sempre, assieme alle capacità degli Stati Uniti di esercitare il controllo sulla regione e di influenzare le scelte politiche e militari dei propri nemici.

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