Con la gestione cialtronesca del caro-benzina, il governo Meloni è riuscito nell’impresa di non risolvere alcunché e, allo stesso tempo, far arrabbiare tutti. Ma proprio tutti. Oltre agli automobilisti e ai gestori, di recente anche l’Antitrust si è aggiunta alla lista degli scontenti. Secondo l’Autorità, infatti, l'idea di imporre ai benzinai l’esposizione di un cartello col prezzo medio regionale per aumentare la trasparenza del mercato non solo è inutile, ma potrebbe addirittura danneggiare la concorrenza.

Venerdì, in audizione davanti alla Commissione Attività produttive della Camera sul “decreto carburanti”, il presidente dell'Agcm, Roberto Rustichelli, ha spiegato che “la diffusione presso gli esercenti di un prezzo medio regionale rischia di ridurre la variabilità di prezzo, in quanto potrebbe essere utilizzata dalle imprese per convergere automaticamente su un "prezzo focale", cioè un parametro chiaro da seguire per evitare una "guerra di sconti" che andrebbe a beneficio ai consumatori”. Traduzione: il provvedimento varato dal governo è talmente da incompetenti che produrrà l’effetto opposto a quello desiderato.

Non solo: secondo Rustichelli, “la media aritmetica del prezzo regionale risulta molto poco rappresentativa dell'effettivo contesto competitivo in cui un impianto di distribuzione di carburanti opera”, ed è “poco utile” per gli automobilisti, poiché “un impianto risulta effettivamente in concorrenza soltanto con quelli situati a pochi chilometri di distanza” e perciò i doppi cartelloni potrebbero “perfino indurre in confusione alcuni consumatori”.

La domanda di fondo rimane però senza una risposta univoca: perché mai in Italia la benzina costà più che nella maggior parte dei Paesi europei? Le aziende dei carburanti puntano il dito contro la tassazione, e hanno ragione, perché il peso delle accise nel nostro Paese non ha rivali nel resto dell’Unione europea. Questo però non basta a spiegare le differenze di prezzo con il resto dell’Ue.

Il governo infatti, di solito, tende a scaricare la responsabilità proprio sul mercato, accusandolo di speculare a danno dei consumatori. Lo scorso marzo Roberto Cingolani parlò addirittura di “una colossale truffa a spese delle imprese e dei cittadini”: peccato che non sia andato a fare i nomi in Procura e che la sua sparata si sia persa nel vuoto. Perché in realtà ha ragione anche lo Stato: va bene che la tassazione è alta, ma i movimenti dei prezzi in Italia non sono coerenti con quelli di un mercato concorrenziale e suggeriscono un certo livello di coordinazione fra le aziende, da sempre molto reattive (e sincrone) nel registrare i movimenti al rialzo delle quotazioni del petrolio, ma altrettanto lente (e altrettanto sincrone) nel trasferire alla pompa i ribassi.

C’è però anche un altro elemento di cui tenere conto: in Italia le stazioni di servizio sono tantissime, al punto che il carburante medio venduto in un anno dai singoli impianti si ferma a 1,3 milioni litri, contro gli oltre tre milioni di litri registrati in Francia o in Germania, dove le stazioni sono più grandi e molto meno numerose. Il frazionamento del mercato italiano, che conta tanti benzinai piccoli o piccolissimi, è un elemento che contribuisce a spiegare i rincari, perché più stazioni vuol dire più costi e meno efficienza per i gestori, che quindi poi si rifanno aumentando di qualche centesimo il prezzo dei carburanti.

Da anni l’Antitrust segnala che i punti vendita andrebbero ridotti per migliorare l'efficienza e innescare così una riduzione dei prezzi. Una soluzione complessa a un problema complesso. Ma, come al solito, la destra preferisce risposte semplici. E allora via: doppi cartelloni.

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