Nel fine settimana, la Tunisia è precipitata nella più grave crisi politica dai tempi della “Primavera Araba” e del movimento popolare che provocò il rovesciamento del regime di Ben Ali nel 2011. Le tensioni che attraversavano da mesi il paese nordafricano sono esplose dopo l’intervento nella serata di domenica del presidente, Kais Saied, che ha di fatto assunto i pieni poteri, sospendendo il parlamento e liquidando il primo ministro, Hicham Mechichi.

 

La mossa di Saied è coincisa con l’intensificarsi delle manifestazioni di protesta contro il governo per la pessima gestione della campagna di vaccinazioni contro il COVID-19 e, più in generale, per una crisi economica aggravata dalla stessa pandemia ma in pratica mai risolta dalla rivoluzione di un decennio fa e dalla successiva transizione nominale a un sistema democratico. Da allora e soprattutto in questi ultimi anni, la Tunisia è rimasta ingolfata in una serie di conflitti politici che hanno segnato in gran parte anche la presidenza di Saied, eletto nel 2019 da indipendente grazie a una campagna elettorale basata sulla lotta alla corruzione e contro un sistema totalmente inefficiente.

Il 63enne presidente si è appellato all’articolo 80 della Costituzione tunisina per dichiarare lo stato di emergenza nazionale. Oltre a rimuovere il premier in carica e a congelare l’attività del parlamento per 30 giorni, Saied ha anche sospeso l’immunità garantita ai deputati e preso il controllo dell’ufficio del procuratore generale. Un’anticipazione di quanto accaduto domenica si era avuta settimana scorsa con il presidente che aveva sollevato il ministero della Sanità della gestione delle vaccinazioni per assegnarla all’esercito. Anche in questo caso, Saied aveva sfruttato la situazione caotica in molti centri vaccinali e il licenziamento del ministro della Sanità da parte del primo ministro Mechichi.

L’intervento di Saied ha avuto così l’apparenza di una misura estrema presa in risposta alla quasi sollevazione popolare in corso, visto appunto che proprio nella giornata di domenica si erano intensificate le manifestazioni per chiedere le dimissioni del governo e lo scioglimento del parlamento. Le forze di polizia erano anche intervenute duramente contro i manifestanti, ma nella serata le proteste si sono trasformate in scene di festa dopo l’iniziativa del presidente. I militari sono inoltre scesi nelle strade e hanno circondato l’edificio del parlamento, impedendo ai suoi membri di accedervi.

Lo “speaker” del parlamento, Rachid Ghannouchi ha risposto duramente a Saied, denunciando gli eventi come un “golpe contro la rivoluzione e la Costituzione”. Inoltre ha fatto sapere di ritenere ancora in funzione le istituzioni sospese dal presidente, per poi invitare i sostenitori del suo partito islamista moderato Ennahda e tutta la popolazione della Tunisia a “difendere la rivoluzione”. Nelle prime ore di lunedì, Ghannouchi ha cercato senza successo di entrare in parlamento per convocare una sessione in violazione dell’ordine presidenziale.

Ennahda fa parte della maggioranza che sostiene il governo di Mechichi ed è la formazione con il maggior numero di seggi in parlamento. Questo partito è affiliato al movimento islamista dei Fratelli Musulmani. A denunciare esplicitamente quello che ritengono come un colpo di stato da parte del presidente sono stati almeno altri due importanti partiti di opposizione, quello secolare centrista Qaib Tounes (“Cuore della Tunisia”) e quello della destra islamista Karama.

Gli ultimi sviluppi della crisi tunisina non sono del tutto sorprendenti e non solo per il livello che aveva ormai raggiunto lo scontro ai vertici delle istituzioni del paese. Un paio di mesi fa, la testata on-line Middle East Eye aveva scritto dell’esistenza di un documento riservato preparato dai consiglieri di Saied nel quale si sollecitava il presidente a prendere il controllo del paese appellandosi appunto all’articolo 80 della Costituzione. Secondo questa lettera, Saied avrebbe dovuto convocare al palazzo presidenziale il primo ministro Mechichi e lo “speaker” del parlamento Ghannouchi, mettendoli entrambi in stato di fermo mentre veniva dichiarato lo stato di emergenza.

Il parere doveva offrire un modo per uscire dalla crisi politica, alimentata dalla pandemia e dalle difficoltà economiche, soprattutto alla luce delle trattative in pieno di stallo con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) per sbloccare un prestito tra i 3 e i 4 miliardi di dollari ritenuto necessario a evitare il baratro fiscale nel quale rischia di precipitare la Tunisia. Saied si è mosso così in gran parte sulla linea consigliatagli dal suo entourage, anche se per certi versi si è spinto addirittura oltre.

Il presidente non avrebbe l’autorità costituzionale per rimuovere il capo del governo e sospendere il parlamento. Infatti, l’invocazione dell’articolo 80 della Costituzione non prevede quest’ultima ipotesi, ma prescrive che l’assemblea legislativa resti continuativamente in sessione. Inoltre, secondo la Costituzione approvata nel 2014 deve essere uno speciale tribunale, ovvero una sorta di Corte Costituzionale, a dirimere le dispute tra i poteri dello stato. Questa corte non è stata però ancora istituita a causa delle diverse interpretazioni del dettato costituzionale e, più concretamente, delle dispute sull’identità dei giudici che dovrebbero farne parte.

Gli oppositori di Saied denunciano un’iniziativa che potrebbe ricalcare le orme del sanguinoso colpo di stato in Egitto dell’attuale presidente al Sisi nel 2013, quando a capo delle forze armate depose il governo del presidente democraticamente eletto, Mohamed Mursi, anch’egli appartenente al movimento dei Fratelli Musulmani. In quest’ottica andrebbero considerate anche le implicazioni internazionali degli eventi di queste ore in Tunisia. Infatti, uno dei governi che per primo ha denunciato le azioni di Saied come un “golpe” è stato quello turco del presidente Erdogan, impegnato da tempo nella promozione di forze di ispirazione islamista nell’area mediorientale e nordafricana.

Il presidente tunisino ha comunque prospettato un ulteriore inasprimento delle misure annunciate nel fine settimana, avvertendo che le forze armate risponderanno con la forza all’eventuale ricorso alle armi da parte dei suoi oppositori. I commentatori internazionali si sono interrogati sulle posizioni dei vertici militari, ma Saied si è presentato domenica alla popolazione tunisina affiancato da alcuni alti ufficiali dell’esercito.

Alla delicatezza e alla fluidità della situazione nel paese nordafricano ha fatto riferimento un manifestante nelle strade di Tunisi citato dalla stampa internazionale. A suo parere, in Tunisia “dal 2011 ogni protesta è una nuova rivoluzione e… qualsiasi movimento può cambiare il sistema”. Questa osservazione appare estremamente acuta e, oltre a lasciare aperta la strada a conseguenze impreviste, ricorda la natura incompleta della “rivoluzione” del 2011 e distruggere il mito, propagandato a ripetizione dai media ufficiali di mezzo mondo nell’ultimo decennio, di un paese che avrebbe praticamente da solo beneficiato di una transizione democratica dopo le scosse della “Primavera Araba”.

In attesa degli sviluppi della crisi innescata dalla decisione di Saied, è già possibile prevedere come l’apparente sostegno popolare ai provvedimenti del presidente sarà di breve durata. Le illusioni generate dalla rimozione di un governo legittimamente osteggiato dalla maggioranza della popolazione lasceranno il posto alla realtà di un colpo di mano di natura autoritaria e che ha obiettivi ben precisi e non esattamente di natura democratica.

Il primo, come già accennato, sarà il tentativo di stabilizzazione politica e sociale del paese per consentire un accordo col FMI che porti alla finalizzazione di un prestito alla Tunisia, a cui dovranno seguire “riforme” e tagli alla spesa pubblica, col conseguente ulteriore impoverimento di buona parte della popolazione, inclusi molti dei tunisini scesi nelle strade in questi giorni per celebrare la manovra messa in atto dal presidente Kais Saied.

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