Domenica 21 aprile, nel Paese Basco, circa un milione e ottocentomila persone erano chiamate alle urne per rinnovare il Parlamento. All’appello ha risposto il 62,5%, suddiviso tra le tre province di Bizcaya, Guipúzcoa e Álava. Una percentuale alta, se paragonata con l’ultimo appuntamento elettorale, quello del 2020 drammaticamente contrassegnato dalla pandemia. Molto più bassa invece, rispetto all’auge dell’80% raggiunto nel 1980, anno delle prime consultazioni dopo la transizione democratica.

Nel sistema spagnolo, le elezioni regionali rappresentano un test estremamente significativo, al di là della influenza che potrebbero avere nella politica nazionale. È questa una lettura “classica” che, più o meno, si applica in qualsiasi altro paese con un ordinamento similare. Nel caso di Euskadi, e lo sarà forse ancora di più il prossimo 12 maggio in Catalogna, i competitors sono arrivati al voto concentrandosi quasi esclusivamente su tematiche e problemi inerenti al proprio territorio di riferimento.

 

La campagna elettorale è partita abbastanza in sordina e molte analisi al riguardo convergono su quattro punti essenziali; i festeggiamenti per la conquista della Copa del Rey il 6 aprile da parte dell’Athletic Bilbao, la scomparsa dell’ex lehendakari-governatore Ardanza, l’attacco con spray al peperoncino al candidato del Partito Nacionalista Vasco Pradales, la risposta (considerata quasi universalmente) a dir poco evasiva su ETA  del candidato di EH Bildu Otxandiano, ospite di una trasmissione radiofonica. Altrettanto unanime è stato il giudizio su un dibattito serrato e dai toni anche molto aspri, in un normale climax del confronto in prossimità della scadenza elettorale.

Ma qual è stato l’esito dello scrutinio partito immediatamente dopo la chiusura dei seggi?

Ormai siamo abituati alle dichiarazioni a caldo in cui protagonisti presidenti e comprimari, asserragliati nelle proprie sedi-bunker, commentano i risultati con un unico inequivocabile leitmotiv: nessuno ha perso, hanno vinto tutti. Non sfuggono a questa ordinaria litania neanche partiti candidati e rappresentanti che hanno animato la contesa per scegliere il/la lehendakari del Paese Basco e riconfigurarne il Parlamento. E ciò che ne è uscito, in definitiva, è un pareggio. Tra il PNV, detentore egemonico dello scranno più alto da dodici inscalfibili legislature, ed EH Bildu, la formazione della sinistra indipendentista che riunisce (Bildu in euskera, la lingua basca, significa esattamente questo) la galassia abertzale dal 2012, anno della sua fondazione. Con alcune imprescindibili sfumature, che mai come in questi casi, i numeri aiutano a rendere più chiare. E indiscutibili, a meno delle immancabili fantasiose interpretazioni.

I sondaggi, e non poteva essere altrimenti, che hanno accompagnato le tappe di avvicinamento al 21 aprile, avevano già delineato uno scenario “tradizionale” caratterizzato però da molte innegabili novità. Alla scontata affermazione dei conservatori nazionalisti del PNV, si affiancava l’exploit dei sovranisti progressisti di EH BIldu. Anzi, negli ultimissimi giorni, tutte le agenzie specializzate nelle indagini di opinione davano Pello Otxandiano in leggerissimo vantaggio su Manuel Pradales; si stava cioè prefigurando un deciso rimescolamento delle carte nella sede del governo basco di Vitoria-Gasteiz.

In realtà, ci si è andati molto vicino. Peccato che, al momento, gattopardescamente tutto sembra cambiare mentre rimane tutto inalterato. O quasi. Il PNV conferma la prima posizione ma perde ben 4 seggi rispetto al 2020, passando da 31 a 27. A sua volta EH Bildu ne guadagna 6, passando dunque da 21 a 27, aggiungendo circa 100.000 nuovissimi consensi. Il sorpasso (questo termine in italiano è stato usato su molte testate spagnole, forse una citazione-omaggio cinematografica) non c’è stato, ma un empate del tutto inedito, è più che evidente.

Il partito di Arnaldo Otegi, portavoce di Herri Batasuna e tra i fondatori di Sortu, le due “anime” di EH Bildu, porta a casa un risultato che candidato dirigenti e militanza non hanno esitato a definire come storico. Un balzo in avanti, e in alto, che ora non causerà grandi cambiamenti ma ne ipoteca diversi per il futuro. A presiedere il Parlamento rimarrà infatti lo sperimentato sodalizio tra PNV e socialisti del PSE, i quali possono vantare un 12% di consensi con un aumento di due punti percentuali rispetto alla passata tornata elettorale.

Le grida di giubilo e la gioia incontenibile ostentata dal quartier generale del PNV è quindi del tutto “giustificata”; un respiro di sollievo che scongiura il pericolo di una vittoria asfaltatrice della izquierda abertzale. Una boccata di ossigeno che arriva fino a Madrid, dove Sanchez può dormire sonni tranquilli per la auspicata rinnovata alleanza con i nazionalisti buoni e per lo scampato pericolo di dover trattare con quelli cattivi.

Non abbastanza tali a qualche chilometro di distanza, sia detto per inciso, se hanno contribuito e contribuiscono a tenere in piedi la baracca governativa alla Moncloa, sede del parlamento spagnolo.

Il Partito Popolare in versione basca, sebbene abbia guadagnato un punto, con il suo 7% risulta del tutto irrilevante per fornire carburante agli attacchi quotidiani che il segretario generale Alberto Feijóo lancia al Presidente Pedro Sanchez e a tutta la coalizione che lo sorregge. Tra cui Sumar, la formazione della Vicepresidenta e Ministra del Lavoro Yolanda Diaz, reduce da uno striminzito 3.34%, che garantisce l’entrata di un solo deputato. Nelle elezioni nazionali del luglio passato, insieme a Podemos avevano raggiunto l’11%, mentre la scelta di presentare liste separate in Euskadi ha decretato una emorragia di voti e la invisibilità del partito di Ione Belarra, che si ferma addirittura sotto la soglia di sbarramento. Scompare del tutto dal radar politico di Euskadi, e non solo, pare. Neanche un seggio, come invece per la oscena ultradestra di Vox.

Quella che si autodefinisce apertamente “sinistra sovranista”, una formula che magari stride alle nostre orecchie, è una sinistra nuova e rigenerata ma con salde radici nel passato. La media anagrafica del seguito di EH BIldu segnala una cospicua presenza giovanile, unita a uno zoccolo duro proveniente dalle esperienze novecentesche e dell’inizio del terzo millennio. Non necessariamente legate alla storia di ETA (ricordiamo che ha deposto le armi nel 2011 e si è definitivamente sciolta nel 2018), per quanto tentino da sempre e da più parti di intrappolarle. E più di quanto i profili della dirigenza e della stessa base sembrino evidenziare.

Pello Otxandiano, il candidato a governatore, ha quarant’anni e quindi ben poco a che vedere con tutto il periodo in cui l’organizzazione armata basca era attiva; ha dichiarato che “fortunatamente ETA non esiste più”. Pertanto, non si tratta di stabilire, in modo semplicistico e strumentale, se ETA sia una “banda terrorista” o meno, come è stato esplicitamente e pubblicamente chiesto al capolista di Bildu. Il suo rotondo successo alle elezioni ha dimostrato che nella società basca questo aspetto è affrontato con meno ipocrisia e senza i reiterati tentativi di avvelenare un auspicabile sano e proficuo confronto democratico. Rispettando memoria e vittime, indistintamente tutte le vittime.

Per la prima volta dalla sua costituzione, il Parlamento Autonomo Basco è a maggioranza nazionalista: 54 scranni su 75. Un dato inoppugnabile che contrasta con gli umori di un tessuto sociale, verificati da inchieste e indagini specifiche, molto più sensibile ai problemi irrisolti della sanità della istruzione e delle diseguaglianze economiche nonché a voltare pagine anche rispetto agli orrori del passato. Da ovunque siano stati causati.

Il compito a cui è chiamata la sinistra di EH Bildu, che nelle dichiarazioni immediatamente post-voto ha comunque ribadito di voler rappresentare anche i 500.000 orfani di Sumar e Podemos, è più impegnativo della scontata alleanza di governo, finalizzata ad autosostenersi e a perseverare nelle dottrine mortifere del neoliberismo e del libero mercato. Una sfida che supera, o per lo meno dovrebbe avere l’ambizione di superare, i confini delle tre province che alimentano l’immaginario dell’imprescindibile orizzonte dell’indipendentismo basco. Non si sa, ovviamente, se questa sinistra sovranista sarà all’altezza del proprio ruolo, ma ha davvero tutti i numeri per uscire dalle acque paludosi di un pareggio vittorioso. 

        

                   

 

 

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