La pubblicazione questa settimana del rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sull’origine della pandemia di Coronavirus ha prevedibilmente scatenato polemiche e accuse per il trattamento troppo remissivo che gli esperti incaricati dell’indagine avrebbero mostrato nei confronti della Cina. Le critiche, spesso feroci, non si basano tuttavia sull’evidenza scientifica, ma rispondono, in maniera più o meno consapevole, a esigenze di altra natura, da collegare in sostanza al fallimento di tutto l’Occidente nel combattere efficacemente il virus, così come alla crescente rivalità strategica, economica, tecnologica e militare tra Washington e Pechino.

 

Alla stesura del rapporto dell’OMS hanno partecipato 34 scienziati di numerosi paesi, inclusi americani e cinesi. Tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio si sono concentrati sulla località di Wuhan, dove si presume sia iniziata l’epidemia. Al centro dello studio ci sono stati soprattutto i casi di COVID-19 riscontrati tra il dicembre del 2019 e il gennaio successivo.

Anche se non definitivo, il rapporto fissa alcuni paletti importanti, a cominciare da quelli relativi alla tesi della fuga del virus da un laboratorio di Wuhan. L’ipotesi, per quanto smentita da quasi tutti gli ambienti scientifici nell’ultimo anno, è stata comunque presa in considerazione dal team dell’OMS ed è stata giudicata alla fine “estremamente improbabile”. Nel rapporto si legge che “non esiste traccia di virus collegati al SARS-CoV-2 in nessun laboratorio prima del dicembre 2019, né genomi la cui combinazione può dar vita a quello del SARS-CoV-2”.

La versione sostenuta dall’OMS è invece quella appoggiata da quasi tutta la comunità scientifica, cioè dell’origine animale, probabilmente da un pipistrello, e del passaggio a una o più specie intermedie prima di raggiungere l’uomo. Il luogo maggiormente indiziato per il trasferimento all’uomo è l’ormai famigerato mercato di animali Huanan di Wuhan, anche se non sono escluse altre ipotesi. L’OMS spiega che due terzi delle circa 170 persone che avevano riferito sintomi nel dicembre 2019 erano entrate in contatto con animali vivi o morti nel periodo immediatamente precedente, ma il 10% di essi aveva anche viaggiato lontano da Wuhan.

I ricercatori cinesi avevano sequenziato il genoma del SARS-CoV-2 da alcuni individui di questo gruppo, scoprendo che otto di essi erano identici e si riferivano a persone che avevano frequentato il mercato Huanan. Questo risultato confermerebbe l’origine dell’epidemia in questo luogo. Tuttavia, altri genomi rilevati nelle fasi iniziali erano leggermente diversi e non tutti collegati al mercato. Secondo il rapporto dell’OMS, ciò significa che il coronavirus poteva essersi diffuso “silenziosamente” in altre comunità, evolvendo nel frattempo e colpendo accidentalmente individui che avevano frequentato il mercato di Wuhan.

Secondo il virologo dell’Università di Sydney Eddie Holmes, citato dalla rivista Nature, un’altra possibilità è che l’origine sia da ricondurre a una fattoria o a un allevamento che riforniva di animali il mercato. Alcuni di questi ultimi, infettati con varianti leggermente differenti di SARS-CoV-2, sarebbero finiti a Huanan provocando infezioni multiple tra gli uomini.

In merito alle indagini sulla possibile fuga del virus dal laboratorio di Wuhan, il membro del team WHO Peter Daszak ha assicurato che i ricercatori che lavorano in questa struttura sono stati interrogati in piena libertà e hanno dato la loro totale collaborazione. Nel laboratorio nessuno del personale aveva anticorpi contro il SARS-CoV-2, rendendo improbabile che l’epidemia si sia diffusa nel corso di un esperimento finito male. Nel laboratorio non era conservato inoltre nessun ceppo di virus simile al SARS-CoV-2. Lo stesso Daszak, che collabora con i ricercatori dell’Istituto di Virologia di Wuhan, ha affermato che “l’unica prova della fuga dal laboratorio è l’esistenza di un laboratorio a Wuhan”.

Se i risultati dell’indagine dell’OMS vanno dunque in una direzione ben precisa, il comunicato ufficiale rilasciato dal direttore dell’agenzia, Tedros Ghebreyesus, è stato più prudente e ha tenuto a sottolineare il carattere non definitivo del rapporto. Tedros ha ammesso che l’ipotesi della fuga del virus dal laboratorio è “la meno probabile”, ma anche essa “rimane sul tavolo” e richiede “altre ricerche”. In generale, per il direttore dell’OMS, il rapporto non è “di respiro abbastanza ampio” e saranno necessari “ulteriori dati e nuovi studi per raggiungere una conclusione più solida”.

Le parole di Tedros sono con ogni probabilità il risultato delle enormi pressioni che l’OMS ha subito, in particolare dagli Stati Uniti e da altri governi occidentali, come minimo per tenere alte le pressioni sulla Cina. Il leader del team di scienziati che ha condotto lo studio a Wuhan, Ben Embarek, ha ammesso apertamente di avere sentito “pressioni politiche”, non tanto o non solo dalle autorità di Pechino, ma da ambienti “fuori dalla Cina”.

Alla questione dei dati e delle informazioni che mancherebbero all’appello o che l’OMS intende analizzare in futuro per arrivare a una conclusione definitiva è stato dato parecchio risalto dalla stampa e dai governi in Occidente. Soprattutto nei titoli degli articoli relativi al rapporto, si è cercato di dare l’impressione di un atteggiamento cinese improntato alla segretezza, evidentemente per occultare responsabilità indicibili sull’origine del virus.

In realtà, come ha spiegato lo stesso Embarek, questo presunto problema è dovuto al fatto che l’indagine è da considerarsi ancora aperta. L’OMS, poi, ha richiesto una quantità massiccia di dati su decine di migliaia di persone che in Cina avevano mostrato sintomi simili a quelli influenzali prima del dicembre 2019. La consegna di questi dati richiede tempo anche solo per una questione logistica, mentre vanno considerate anche le implicazioni della privacy che Embarek ha spiegato essere “esattamente uguali” a quelle che emergerebbero in qualsiasi altro paese del mondo.

Le polemiche sull’origine del coronavirus resteranno comunque caldissime, visto che la pandemia è un altro dei fronti dello scontro tra Stati Uniti e Cina. L’amministrazione Biden ha infatti sposato quasi interamente le posizioni di Trump sulle responsabilità cinesi, inclusa quella, decisamente cospirazionista, della fuga dal laboratorio di Wuhan. La portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, ha sostenuto, senza alcun fondamento, che il rapporto dell’OMS “non ci porta più vicino a comprendere le origini del virus rispetto a sei o nove mesi fa”. Un gruppo di altri paesi alleati di Washington ha inoltre emesso un comunicato, nel quale sostanzialmente si accusa la Cina per non avere messo a disposizione degli investigatori tutti i dati e i campioni in proprio possesso.

L’atteggiamento americano continua così a essere guidato dalla propaganda anti-cinese piuttosto che dalla scienza. La prima e più immediata ragione di ciò è la necessità di identificare un altro colpevole della gestione disastrosa dell’epidemia in America. Le autorità americane non avrebbero cioè particolari responsabilità per la devastazione causata dal COVID-19, dal momento che la Cina ha tenuto nascosto informazioni cruciali per combatterlo o, addirittura, lo ha provocato in maniera più o meno deliberata.

La realtà dei fatti racconta però un’altra storia. Pechino aveva infatti messo in guardia tempestivamente sia l’OMS sia i governi di tutto il mondo a inizio 2020 su quanto stava accadendo e gli USA, così come gli altri paesi, hanno sprecato settimane o mesi preziosi per combattere la diffusione del virus, preferendo salvaguardare gli interessi economici fino a quando è stato possibile.

L’altro fattore da considerare è invece l’offensiva anti-cinese in corso da tempo e accelerata dall’amministrazione Biden. Il tentativo di contenere la minaccia di Pechino passa insomma anche dal Coronavirus e punta a creare un clima nel quale la Cina viene continuamente demonizzata, in modo da gettare le basi per l’intensificazione di una pericolosa escalation che rischia di sfociare, nella peggiore delle ipotesi, in un rovinoso conflitto armato.

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