La campagna reazionaria lanciata da un paio d’anni negli Stati Uniti, teoricamente per combattere ogni forma di molestie sessuali e diventata famosa in tutto il mondo con lo slogan “#MeToo”, ha iniziato a mostrare questa settimana evidenti segni di cedimento in seguito al crollo del processo penale intentato nei confronti dell’attore due volte premio Oscar, Kevin Spacey.

 

Un tribunale distrettuale dello stato del Massachusetts ha deciso mercoledì l’archiviazione del caso che vedeva il 59enne Spacey alla sbarra con l’accusa di aggressione a scopi sessuali e percosse. A denunciarlo era stato l’oggi 21enne William Little, il quale aveva conosciuto Spacey una sera del luglio 2016 nel bar Club Car di Nantucket, dove lavorava come fattorino.

 

Le accuse contro l’attore erano state rivelate in una conferenza stampa nel novembre del 2017 dalla madre del giovane, Heather Unruh, conduttrice televisiva piuttosto nota nell’area di Boston. Dopo avere terminato il suo turno di lavoro, Little aveva avvicinato Kevin Spacey per scattare una fotografia assieme al protagonista della serie “House of Cards”. Spacey, secondo la ricostruzione dell’accusa, avrebbe offerto vari drink alcolici alla sua presunta vittima, insistendo poi per farsi accompagnare nella sua abitazione. Nel corso della serata, Spacey avrebbe molestato ripetutamente Little, il quale, approfittando di un’assenza momentanea dell’attore, sarebbe alla fine riuscito ad abbandonare il locale.

 

La notizia dell’accusa contro Spacey era stata annunciata con modalità tali da suscitare il maggior clamore possibile. La madre di William Little aveva convocato numerosi giornalisti e, tra l’altro, aveva chiarito l’intenzione della sua famiglia di voler “vedere Kevin Spacey finire in galera”. I guai per quest’ultimo erano in realtà iniziati circa un mese prima, quando l’attore Anthony Rapp lo aveva a sua volta accusato di avergli fatto aggressive “avances sessuali” nel 1986, quando aveva 14 anni e Spacey 26. Spacey aveva sostenuto di non ricordare l’episodio, ma si era scusato pubblicamente per avere tenuto un comportamento inappropriato. L’eventuale reato era comunque ormai prescritto.

 

Le accuse di Rapp e Little avevano subito scatenato una feroce campagna contro Kevin Spacey, diventato letteralmente da un giorno all’altro una sorta di mostro o maniaco sessuale, costretto a difendersi da una serie di denunce per molestie emerse in rapida successione e tutte o quasi senza altre prove oltre alle testimonianze delle presunte vittime.

 

L’epilogo del processo appena archiviato a favore di Spacey era apparso inevitabile già nella giornata di lunedì. Un difensore dell’attore americano aveva interrogato William Little circa i messaggi di testo spariti assieme al suo cellulare che avrebbero dovuto costituire la prova più importante delle molestie subite. Secondo la difesa, dal telefono di Little erano stati inviati alla fidanzata e ad alcuni amici messaggi e immagini della serata che avrebbero scagionato Spacey. Per l’attore, infatti, i due avevano soltanto “flirtato in maniera consensuale”.

 

I famigliari dell’accusatore hanno sostenuto che il cellulare non sarebbe mai rientrato nel loro possesso, anche se la polizia assicura di averlo restituito, mentre la madre di Little ha ammesso di avere cancellato del materiale dal telefono, a suo dire non relativo alla serata con Kevin Spacey. In alternativa, al giudice del processo è stata proposta la consegna di un computer che conterrebbe il backup di quanto vi era sul cellulare, ma la difesa dell’attore ha chiesto e ottenuto un rifiuto perché il materiale sarebbe risultato “inadeguato”.

 

William Little, inoltre, si è appellato al Quinto Emendamento, rifiutandosi cioè di deporre in tribunale per evitare di auto-incriminarsi. A questo punto, il pubblico ministero non ha potuto che prendere atto del venir meno degli unici due elementi incriminanti – il cellulare e la testimonianza della presunta vittima – così che le accuse sono state lasciate cadere e il giudice ha archiviato il procedimento.

 

Che il caso fosse traballante era già sembrato chiaro prima dell’apparizione in tribunale di William Little. La sua famiglia aveva presentato una denuncia contro Spacey in sede civile il 26 giugno, ma circa una settimana dopo era stata ritirata, secondo i legali a causa dello “stress” provocato dalla vicenda.

 

L’intero caso dimostra clamorosamente come la caccia alle streghe alimentata dal movimento “#MeToo” si sia appoggiata quasi sempre su fondamenta legali fragilissime. A riprova di ciò è il fatto che pochissimi degli scandali sessuali creati da stampa e social media sono finiti in tribunale e meno ancora si sono risolti in condanne.

 

Le sole testimonianze degli accusatori sono state prese come verità inconfutabili dai sostenitori della campagna. In altri casi, atteggiamenti quanto meno ambigui, se non oggettivamente trascurabili, sono stati denunciati come veri e propri atti irreparabili di violenza sessuale. I presunti colpevoli sono stati così trasformati sommariamente in predatori sessuali da emarginare e, non di rado, da ricoprire pubblicamente di insulti. Attori, politici, giornalisti e altre personalità più o meno note della televisione, del cinema e dello spettacolo in genere si sono spesso ritrovati con le loro carriere rovinate.

 

Lo stesso Kevin Spacey è diventato improvvisamente un paria per l’industria cinematografica americana. Dopo le accuse rivoltegli, il doppio vincitore del premio Oscar è stato vergognosamente escluso dal cast di “House of Cards”, la popolare serie su un immaginario presidente americano prodotta da Netflix, e dal film “Tutti i soldi del mondo” di Ridley Scott. Per quest’ultima produzione, Spacey aveva già girato alcune scene nel ruolo del miliardario J. Paul Getty, ma fu ugualmente licenziato e sostituito da Christopher Plummer.

 

La parziale rivincita di Kevin Spacey, il quale dovrà comunque affrontare altri procedimenti legali, è stata prevedibilmente riportata dai media americani senza particolare clamore. Il crollo delle accuse nei suoi confronti smonta d’altra parte un’impalcatura costruita a tavolino che i media ufficiali negli Stati Uniti e non solo continuano ancora oggi a sostenere.

 

Un altro caso nel mirino della campagna “#MeToo” che aveva fatto molto rumore era a sua volta evaporato nei mesi scorsi, confermando la tendenza inevitabile al dissolversi di accuse senza fondamento o, quanto meno, impossibili da provare davanti alla giustizia. All’acclamato attore australiano Geoffrey Rush, premio Oscar per il film “Shine” del 1997, era stato cioè riconosciuto un risarcimento di quasi due milioni di dollari lo scorso mese di maggio in seguito a una causa per diffamazione contro un giornale del gruppo Murdoch, responsabile della pubblicazione di svariati articoli che lo accusavano di avere molestato sessualmente alcune colleghe attrici.

 

Anche se presentata come una causa progressista per l’avanzamento soprattutto dei diritti e della dignità delle donne, la campagna “#MeToo” non è mai stata nulla del genere. Essa ha anzi assunto da subito caratteri profondamente anti-democratici, in linea con gli orientamenti degli ambienti alto-borghesi che l’hanno promossa e continuano a promuoverla. I diritti delle vittime di violenze sessuali, evidentemente diffuse sia nel mondo dello spettacolo sia in qualsiasi altro ambito lavorativo, non sono in realtà mai stati in cima agli interessi dei fautori della campagna, preoccupati più che altro da questioni che hanno a che fare con la competizione per posizioni di prestigio o con maggiori opportunità di guadagno.

 

Nel complesso, la campagna “#MeToo” ha assunto da subito una fisionomia doppiamente reazionaria. In primo luogo, essa ha riproposto il tema delle politiche identitarie, sostituendo le questioni sociali e di classe, decisamente più pressanti e per molti versi riconducibili alla piaga delle violenze sessuali, con quelle di genere, e dipingendo la componente maschile della società come se fosse composta interamente o quasi da potenziali predatori sessuali.

 

In una finta battaglia per la giustizia delle vittime, inoltre, la caccia alle streghe scatenata in questi ultimi anni ha finito per calpestare diritti democratici e procedure legali, gettando in mare la presunzione di innocenza ed emettendo devastanti sentenze pubbliche prima e al posto dei tribunali.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy