Secondo le autorità italiane, sarebbero 125 i foreign fighters legati all’Italia e nonostante se ne contino solo 2 ogni milione di abitanti - pochi sia in termini assoluti sia in relazione all’intera popolazione - il Belpaese, storicamente, ha giocato un ruolo importante nelle prime mobilitazioni jihadiste. Basti pensare alla centralità di network egiziani e maghrebini basati in Lombardia durante il conflitto bosniaco o alla partenza dalla moschea di viale Jenner a Milano verso l’Iraq contro il neonato governo iracheno dell’immediato post Saddam.

 

 

Composta da immigrati di prima generazione – 40 tunisini, 26 marocchini, 14 siriani, 6 iracheni, 11 dell’Europa occidentale e 11 della regione balcanica – e da un numero crescente di estremisti autoctoni – cioè immigrati di seconda generazione – e convertiti all’Islam, la scena jihadista in Italia ha il suo quartier generale soprattutto nel Nord e nel Centro Italia, prevalentemente nei piccoli centri.

 

Affiliati a gruppi armati nell’area del conflitto, 76 individui hanno aderito allo Stato islamico, 18 si sono uniti a Jabhat al-Nusra, 5 sono entrati a far parte dell’esercito Libero Siriano, 31 hanno operato con altre formazioni minori. Per il 24 per cento dei soggetti, l’attività è ancora in essere nelle aree di conflitto mentre il 33 per cento è deceduta ad aprile 2018 e il 19 per cento è ritornato in Europa, di cui il 9,6 per cento in Italia, pur non risultando che nessuno di questi sia stato coinvolto attivamente nell’esecuzione o nel supporto di attacchi terroristici in Occidente.

 

Ci sono centodieci uomini e 12 donne, 6 delle quali sono convertite e 10 possiedono la nazionalità italiana; 7 sarebbero i minori partiti al seguito di genitori o di conoscenti; 16 anni la più giovane e 52 il più anziano. Con storie personali e background familiari diversi, la maggior parte dei foreign fighters italiani ha “assenza di vincoli personali che possono aumentare i costi e i rischi della partecipazione a movimenti come l’occupazione a tempo pieno, il matrimonio e le responsabilità familiari”, si legge nel documento dell’ISPI, Destinazione Jihad. I foregn fighters d’Italia. Cosicché solo in pochi casi i foregn fighters sono partiti per le aree di conflitto in piccoli gruppi fondati sui rapporti famigliari.

 

Le loro condizioni economiche non sono certe sebbene sia possibile sostenere che la maggior parte non ne vanti di elevate: la maggior parte di loro è risultata disoccupata o è impiegata in lavori abusivi e saltuari; tre erano studenti. Tutti con un basso livello di istruzione, inferiore alla media della popolazione restante. E, però, dotati di buone competenze informatiche considerato che la radicalizzazione passano tutte per il web e le attività di propaganda, per le donne, possono essere fattore di riconoscimento sociale e di legittimazione (poiché, per ragioni di norma e dottrinali, non sarebbero autorizzate ad assumere ruoli di combattimento).

 

Fra le reti off line, cioè locali su base territoriale, le più interessanti sono una rete orizzontale attiva nell’area dei laghi lombardi, con connessioni in CantonTicino, e il network di Ponte Felcino in Umbria.

 

I legami fra foreign fighters si manifestano nella forma di relazioni personali preesistenti alla militanza jihadista: rapporti informali o di parentela e, spesso, a differenza di quanto avviene negli altri stati europei, in Italia numerosi combattenti hanno mostrato percorsi di radicalizzazione individuali, partendo da soli per le aree di conflitto, non riuscendo a trovare compagni di viaggio sul territorio nazionale a dimostrazione del fatto che la scena jihadista italiana è di dimensioni piuttosto ridotte e non strutturata.

 

In effetti, lo studio dell’ISPI mostra che il caso italiano ha tendenze che lo differenziano da tutti i paesi europei: un’età media più alta; la prevalenza di immigrati di prima generazione; un numero alquanto esiguo di luoghi di residenza in aree metropolitane e grandi città; legami relativamente poco estesi e capillari con altre organizzazioni estremistiche; una proporzione contenuta di soggetti già ritornati sul territorio nazionale.

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