di Tania Careddu

Che la morfologia dei flussi migratori, sempre più connessi all’emergenza e alla contingenza delle crisi internazionali, ponga non pochi problemi al nostro sistema di accoglienza è certamente innegabile. Ed è altrettanto vero che con questi dobbiamo fare i conti per pagare il prezzo della globalizzazione e lo sviluppo in un Paese assopito. Con buona pace dei rigurgiti nazionalisti, gli immigrati rappresentano un formidabile volano per la crescita dell’Italia, alla quale forniscono una vitalità altrimenti difficile da trovare per immaginare il futuro.

Con una popolazione composta per il 22 per cento da longevi di età superiore ai sessantaquattro anni e da ultraottantenni che costituiscono il 6,7 per cento del totale e dove i giovani sono sempre meno e fanno sempre meno figli, gli stranieri colmano quel deficit di energie che andiamo progressivamente perdendo. Contribuiscono al mantenimento di quei piccoli periferici comuni che scomparirebbero per effetto dello spopolamento e impediscono la chiusura di alcuni servizi essenziali (a tutti) come scuole, presidi sanitari e farmacie.

Sono indispensabili alla tenuta del welfare famigliare – a basso costo e di buona qualità, sostitutivo di quello pubblico – senza il quale le donne dovrebbero rinunciare alla realizzazione professionale (per dedicarsi all’assistenza degli anziani).

E sono esempio di coraggio, di cui gli italiani diventano sempre più carenti, con quella spinta all’intrapresa che li contraddistingue: la propensione alla microimpresa, nelle costruzioni come nel commercio di prossimità e nella ristorazione, ne ha rivelato la capacità, da sempre considerata italica virtù, di omologarsi a comportamenti socioeconomici.

Guadagnano terreno pure in presenza di segnali (più o meno velati) di insofferenza da parte di molti cittadini italiani che, negli anni della crisi, davanti alla caduta verticale dei livelli di occupazione li hanno reputati pericolosi competitors sul mercato del lavoro, in una caccia alle streghe del tutto infondata soprattutto alla luce dei dati relativi ai beneficiari delle prestazioni pensionistiche.

Si rasserenino, gli italiani: gli stranieri, infatti, fino a oggi, hanno lavorato e contribuito a sostenere il nostro sistema previdenziale, ma ne beneficiano in maniera molto limitata. Basti pensare che quel welfare pubblico sgangherato per gli italiani, fa sentire il peso del suo malfunzionamento anche (e forse di più) agli immigrati.

Lo si vede sul versante della procreazione: dai dati riportati nella relazione “Senza stranieri il rischio è il declino”, realizzata dal Censis nell’ambito del progetto “Fuori dal letargo: soluzioni per una buona crescita”, sembrerebbe che i migranti, da sempre e culturalmente sostenitori dell’idea che i figli sono strumento di crescita e riscatto, tendano ormai ad assorbire il nostro modello demografico, con un crollo delle nascite del tutto estraneo al loro vivere.

Cambiamento che, tutto considerato, non impatta sulla silenziosa ma efficace integrazione di cui sono motori, nonostante le derive, interne e internazionali, di rifiuto e chiusura. Un processo lento ma inesorabile, dunque, a cui l’Italia deve la possibilità di trasformarsi, da nolente a volente, in un Paese multietnico.

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