di Tania Careddu

Per la prima volta nella storia, le donne hanno conquistato il 30 per cento degli incarichi nei consigli di amministrazione delle società quotate nella borsa italiana. Una percentuale degna di nota, questa raggiunta nel 2016, soprattutto se paragonata ai desolanti trascorsi – nel 2008, le poltrone occupate da donne erano, in tutto, centosettanta pari al 5,9 per cento - e ottenuta solo dopo l’obbligo, introdotto dalla legge 120 del 2011, di aumentare progressivamente le nomine femminili negli organi di amministrazione e controllo delle aziende quotate.

Le quali, a un anno dalla promulgazione della legge, sono state vincolate a prevedere, nei propri statuti, disposizioni per garantire l’equilibrio di genere. Che, al momento, sembrerebbe reggersi: ai rinnovi degli organi sociali già avvenuti, infatti, si è superata la soglia minima di amministratrici richieste dalla Golfo-Mosca.

Otto anni dopo la sua applicazione, le donne sono arrivate a occupare seicentottantasette poltrone e nel 68,55 dei casi si tratta di amministratrici indipendenti, non legate ai dirigenti esecutivi o agli azionisti, chiamate a vigilare nel solo interesse delle società.

Ma in questo scenario, che progressivamente assume tonalità rosee, spiace notare che sono solo giusto una manciata le amministratrici delegate: diciassette in totale, appena il 2,5 pe cento delle figure femminili e, per giunta, sono alla guida di aziende a bassa capitalizzazione che, in tutto, raccolgono l’1,7 per cento del valore di mercato.

Aumentano i numeri, quindi m qualitativamente la parità di genere è ancora piuttosto lontana: i ruoli di comando a loro riservati sono poco concreti, meno prestigiosi e non esecutivi tanto che man mano che si sale al vertice diminuiscono contando soltanto il 3 per cento fra i presidenti e il 2,47 fra gli amministratori delegati, secondo quanto riporta il minidossier Trova l’intrusa, redatto da Openpolis.

E sono protagoniste di un fenomeno specificamente femminile, cioè tra i titolari di più incarichi contemporaneamente, le donne – duecentosei nel 2016 a fronte di settantasei tre anni prima – hanno, in media, quasi un incarico e mezzo rispetto a poco più di uno per gli uomini, come a dire che crescono gli incarichi ma non altrettanto i nomi.

E, comunque, loro sono mediamente più giovani – cinquantuno anni circa versus i cinquantanove dei maschi -, più istruite e con meno legami di parentela nelle società in cui ricoprono il ruolo, in cui il merito la fa da padrone tanto che le titolari di specializzazioni post laurea sono quasi il doppio degli amministratori (uomini) così come relativamente all’incidenza della provenienza dal mondo accademico che è doppia per le donne rispetto agli uomini – il 12,2 per cento delle amministratici contro il 6,4 per cento degli amministratori.

A ben guardare, seppure con maggiore lentezza, anche nei board europei la tendenza è la stessa registrata in quelli italiani: negli ultimi anni, gli incarichi femminili negli organi sociali delle aziende quotate in borsa sono passati dal 13,9 per cento del 2011 al 25 per cento del 2015. Anche qui, si tratta, per lo più, di figure di garanzia e controllo rispetto a quelle di carattere esecutivo che, nell’ultimo anno considerato, sono l’esigua minoranza del 6,7 per cento. Ad maiora.

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