di Alessandro Iacuelli

Il 17 aprile prossimo, saremo chiamati a votare sul cosiddetto "referendum sulle trivelle". A pochi giorni dal voto, tuttavia, ci troviamo davanti ad un dibattito referendario pieno di errori e di incomprensioni, che non giovano nessuno a farsi un'idea chiara sul che posizione assumere. Errori, ma anche deviazioni da quello che dovrebbe essere il tema centrale.

Tuttavia, la confusione non è generata dalle parti schierate, essenzialmente il fronte del Sì e quello del non voto; infatti il quesito referendario, per come è posto, rischia di risultare eccessivamente tecnico alla larga maggioranza degli italiani. E' bene quindi ricordare che inizialmente erano state raccolte le firme per la proposta di sei referendum abrogativi, e solo dopo lo stralcio di cinque dei sei quesiti inizialmente programmati, si è arrivati alla consultazione del 17 aprile, e anche questo non ha certo aiutato la chiarezza.

Il primo errore che viene commesso, lo sentiamo ogni volta che si dice, è che serve a dire stop a tutte le nuove trivellazioni. E' sbagliato, per il semplice motivo che è già così. In realtà si chiede agli italiani di pronunciarsi sul cancellare l’articolo del codice dell’Ambiente, come rivisitato dalla legge di Stabilità, che permette ricerche e estrazioni di gas e petrolio in mare entro le 12 miglia marine dalla costa, che corrispondono all'incirca a 22 chilometri.

Questo significa che non cambia nulla per le attività estrattive a distanza superiore: rimane il divieto di approvare nuove concessioni, quelle già esistenti continueranno a lavorare come hanno lavorato fino ad ora. La conseguenza è che una eventuale vittoria del Sì porterebbe all’estinzione delle sole 21 concessioni interessate, le uniche attività estrattive, per lo più in Adriatico, a meno di 22 chilometri dalla costa. Tra l'altro, non terminerebbero l'attività subito, ma in un arco temporale di un ventennio, mentre il No, o il mancato raggiungimento del quorum, garantirebbe di fatto la possibilità di giungere all’esaurimento di ogni giacimento.

Dal fronte opposto, quello di chi invita gli italiani a non andare a votare, si sente dire che in caso di vittoria del Sì l’Italia rischia di rimanere al buio. Difficilmente può succedere, e basta avere una minima cognizione di causa circa il mercato dell'energia per rendersene conto. Non è questa la sede adatta per discutere se siano o meno in buona fede i sostenitori di questa idea, ma è bene far notare che la correlazione tra idrocarburi estratti e il nostro fabbisogno energetico non è diretta, perché le compagnie che operano nei nostri mari, per lo più straniere, sono libere di vendere all’estero il 93% del petrolio ricavato e il 90% del gas.

Pertanto il risultato di quelle attività estrattive va altrove, a noi resta solo l'inquinamento. Su questo argomento, è incredibile semmai come Italia ancora oggi non siano disponibili dati certi. Secondo i calcoli di Legambiente - calcoli stimati - le piattaforme interessate dal voto garantiscono meno dell’1% del fabbisogno nazionale di petrolio e il 3% di quello di gas.

Il resto deriva dalle trivellazioni al largo o sulla terraferma, per un totale del 10% del fabbisogno nazionale; il resto lo importiamo, da sempre. Ne importiamo così tanto, che la nostra dipendenza dall’estero nemmeno risulta in discussione, qualunque sia l'esito del referendum.

Un'altra argomentazione fuorviante è quella secondo cui il referendum può produrre esiti che ricadranno sull'occupazione. Secondo stime considerate attendibili, fornite da Federpetroli, il settore conta 10mila posti di lavoro nella sola attività estrattiva, che però salgono a 115mila considerato l’indotto, secondo Confindustria.

Secondo Pietro Cavanna, presidente del settore Idrocarburi di Assomineraria, il referendum metterebbe a rischio 5mila occupati. Si tratta tuttavia di cifre che per il momento non risultano provate, né provabili. La crisi del settore petrolifero non è una novità: per via del calo dei prezzi del prodotto e dell’alto indebitamento, un terzo delle compagnie nel mondo sarebbe già da un pezzo a rischio fallimento, si tratta quindi di posti di lavoro già a rischio, forse.

Sull'altro fronte, certo ambientalismo tuona dicendo che occorre svincolarsi dalle risorse energetiche fossili e passare il più possibile a fonti rinnovabili. Su questo non ci piove, ma va precisato che l’Italia non è messa malissimo nel settore delle energie rinnovabili. Da calcoli del Gestore dei servizi energetici, nel 2015 il 17,3% dei consumi nazionali di energia è stato soddisfatto da fonti rinnovabili, con una crescita di oltre 10 punti percentuali come richiesto dall’Unione Europea.

La media dell’Europa, secondo la European Environment Agency (Eea), è del 16%, spinta verso l’alto dal 50% di energia alternativa di Paesi quali Svezia, Islanda e Norvegia.

Tuttavia negli ultimi due anni, denuncia Legambiente, si è registrato un drastico calo delle installazioni di nuovi impianti energetici da fonti rinnovabili, soprattutto eolico e fotovoltaico. Il resto della percentuale di approvvigionamento energetico, quasi l'80% del consumo nazionale, viene dalle fonte fossili, che pertanto rimangono una fonte alla quale non siamo in grado di rinunciare, con o senza referendum.

In definitiva, si tratta di stabilire solo se le concessioni già assegnate ed operative, entro le 12 miglia dalla costa, debbano chiudere entro 20 anni oppure se possono continuare oltre. Tutti gli altri referendum cosiddetti NoTriv, tra cui quelli davvero più importanti, sono stati stralciati, e non saremo chiamati ad esprimerci.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy