di Tania Careddu

Lo dicono gli operatori sanitari. Lo confermano fonti internazionali. Lo dichiarano gli interessati: gli immigrati trovano, nella sanità italiana, un contesto, in gran parte, capace di dare risposte assistenziali e umane adeguate alla specificità delle loro esigenze. Sebbene il rapporto con i servizi erogati dal Sistema Sanitario Nazionale italiano, soprattutto all’inizio della loro permanenza nel Belpaese, sia molto poco intenso rispetto agli italiani, la sanità previene, cura e tutela la salute dei nuovi arrivati con efficacia e impegno identici a quelli messi in atto per gli italiani.

Che gli immigrati siano portatori di nuove (o vecchie) patologie, pregiudizio ancora dominante nell’immaginario collettivo, è da sfatarsi alla luce del loro accesso ai luoghi della sanità: ci arrivano solo al momento dell’insorgenza di una patologia in fase acuta.

Perché la demografia e l’epidemiologia informano che gli stranieri residenti nello Stivale stanno mediamente meglio degli italiani, prova ne sia il vigore con il quale resistono ai viaggi nelle ‘carrette del mare’. Poi perché hanno una percezione soggettiva del proprio stato di salute migliore rispetto agli italiani, che dipende anche da un differente approccio alla vita.

Cosicché, senza una ragione specifica, secondo quanto si legge nella ricerca del Censis, “I nuovi pellegrini”, a recarsi dal medico per una visita di controllo generale è il 7 per cento degli stranieri (soprattutto uomini) e i luoghi della prevenzioni sono meno affollati di immigrati che di italiani. Riluttanti ad aderire a programmi di screening, si espongono però, conseguentemente, a una più alta vulnerabilità nel manifestarsi di patologie, vedi malattie infettive degenerative (tipo l’epatite B) facilmente diagnosticabili, invece, con esami di routine. Seguite da malattie all’apparato respiratorio, digerente, ai denti, al sistema nervoso e a quello osteoarticolare.

E però, il rapporto con la sanità si esprime, in primo luogo, nei pronto soccorso: vi accedono una volta l’anno, soprattutto in seguito a incidenti in ambito lavorativo (essendo occupati in settori a più elevato rischio di infortuni). Succede soprattutto gli uomini: tunisini, albanesi, moldavi. E alle donne, marocchine soprattutto.

Donne che, fra le altre immigrate, contribuiscono ad aumentare il tasso di natalità nella Penisola. Eppure, tante di loro, vivono la maternità in condizioni di inadeguatezza, in contesti poco friendly che portano il 47 per cento delle gestanti a fare la prima visita ostetrica dopo il terzo mese di gravidanza e a ricorrere pochissimo all’allattamento al seno.

E sebbene la sanità italiana sia efficiente relativamente agli aspetti clinici, il disagio della maternità è legato a ragioni sociali intrinseche alla loro cultura. Per le donne africane, ad esempio, il parto è un’esperienza collettiva tipicamente femminile, tanto che quello in ospedale ha impatti significativi nella sua percezione, con pericolose associazioni tra parto e malattia).

I consultori famigliari diventano anche occasione di incontro per donne migranti, soprattutto filippine, ucraine, moldave e polacche,: punto di riferimento per trovare quel supporto di conoscenze essenziali per gestire, in autonomia, salute e sessualità. Esempio di quell’umana condivisione di situazioni comuni che, nei luoghi della sanità, trova la sua espressione più spontanea. Genera l’integrazione di fatto tra italiani e immigrati, fondata sulla scoperta dell’altro dentro le vicende della quotidianità, fatta di relazioni minute e non strutturate. Dove la discriminazione non trova forma. Ed evapora nelle sale d’attesa del medico di base che raccoglie non solo le malattie, ma soprattutto i disagi degli stranieri. Alla ricerca di un legame più consistente con il mondo che li circonda, per entrare nelle dinamiche di vicinato.

Una sanità locale, dunque, che garantisce alti standard assistenziali e tenta di rispondere alle loro peculiari esigenze che, innegabilmente, influenzano gli aspetti logistici e organizzativi dell’erogazione dei servizi sanitari.

Bisogna fare i conti, infatti, con l’impatto di convinzioni religiose che, spesso, mal si incastrano nel caso di degenza ospedaliera: cibi o abitudini alimentari del tutto diversi da quelli italiani, periodi di digiuno imposti dai credo, orari di visita che non si modulano sulle esigenze religiose. E con gli approcci culturali: donne che devono essere visitate solo da personale femminile, particolari accortezze nell’approccio alla paziente durante il periodo mestruale, pudicizia con cui si affronta la nudità, esercitano frizioni sulle reali necessità di cura.

Ostacolate, principalmente, dalla barriera linguistica. Oltre alla difficoltà a esprimere sintomi e disturbi, il problema è di comprensione semantica: il retaggio culturale porta ad attribuire senso e valenze differenti alla malattia. Ma, nonostante tutto, la sanità italiana contribuisce all’inclusione sociale, civile, culturale e umana degli immigrati. In tutti i linguaggi possibili.

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