di Tania Careddu

Dall’approvazione della legge penitenziaria del 1975, nella quale si prevedeva la costituzione di uno specifico ordinamento penitenziario minorile, nulla è cambiato. Il processo di decarcerizzazione dei minori che ha portato dagli ottomila e cinquecento ingressi ai circa cinquecento, è frutto di un cambiamento culturale e organizzativo e, non certo, di stravolgimenti normativi.

Il calo delle entrate si può osservare già analizzando la diminuzione di quelle nei Centri di prima accoglienza, ventisette in Italia, in cui i ragazzi sostano, in stato di fermo, per novantasei ore prima dell’udienza di convalida. Una tendenza al ribasso, spiegata anche dal collocamento alternativo all’istituto di pena: la comunità ministeriale o privata e la ‘messa alla prova’, una misura, non solo altra rispetto al carcere, ma anche al processo, sospeso durante l’istituto.

Sta di fatto che, a oggi, le presenza dei minori negli istituti di pena sono quattrocentoquarantanove, dato ormai più o meno stabile nel tempo, che dimostra, però, come il sistema della giustizia minorile, che punta all’interesse del ragazzo finanche rispetto alle esigenze di sicurezza (chapeau), sia riuscito a contenere il ricorso alla detenzione.

Ma proprio per questo, per i minori che non sono riusciti a intraprendere nessun percorso alternativo, risulta il luogo degli esclusi. Discriminatorio e stigmatizzante, sebbene dal 1988 in poi, il legislatore si sia mosso per evitare forme di etichettamento criminale, tipo non menzione nel casellario giudiziario e perdono giudiziale. Ottima mossa: negli ultimi venticinque anni, alla minore durezza della risposta punitiva, infatti, non è corrisposto un aumento dei tassi di devianza o di recidiva. Anzi, ha liberato il campo da prese di posizioni stereotipate (e qualunquiste) nel dibattito pubblico: la severità della pena non ha alcuna efficacia deterrente.

E se, dal punto di vista procedurale, il minore è tutelato, quanto alle norme penitenziarie, ferme, appunto al 1975, la strada da percorrere, verso un approccio educativo e di recupero sociale, è ancora lunga. Basti osservare le strutture, come ha fatto l’Osservatorio Antigone nel Terzo rapporto sugli istituti penali per i minori ‘Ragazzi fuori’: architettonicamente ancora di stampo carcerario con sbarre, cancelli e blindati. Gli spazi non sono sempre compatibili con una molteplicità di bisogni ed esigenze: dai luoghi per praticare lo sport a quelli per la socializzazione.

Assenza di collegamenti alla rete internet ed eccessiva distanza fisica dai centri abitati rendono ostici i rapporti con il territorio e con gli affetti. Ristrettezze normative che ostacolano le relazioni esterne: orari di chiusura delle celle ridotti, mediamente sei ore di colloqui al mese, massimo quattro telefonate della durata di dieci minuti ognuna ogni trenta giorni. E se i poliziotti penitenziari, in grande presenza, non indossano la divisa, gli educatori sono insufficienti: laddove è necessaria la polizia per riportare la calma, non funziona il meccanismo di prevenzione, ascolto e conoscenza. Via, dunque, con punizioni, allontanamenti e trasferimenti su minori con storie di grande disagio e con, addirittura, triple diagnosi.

Ragazzi delusi, deviati, con visioni del mondo distorte. Rigidità da superare con l’istruzione, approccio fondamentale nel processo di ricostruzione di un’identità, indispensabile per far loro acquisire sicurezza e capacità di discernimento, di critica e di apprezzamento delle risorse immateriali che la cultura umana offre. E invece, scorrendo l’elenco delle spese in preventivo nel programma di vari istituti, non compare alcuna voce destinata all’educazione scolastica, all’arredo e alle risorse didattiche.

Più corposa, invece, l’offerta formativa: laboratori professionali, sportelli orientativi permanenti, borse lavoro, tirocini, apprendistato, simulazioni d’impresa, attività straordinarie e ordinarie all’interno delle strutture detentive.

Si, l’istruzione e la formazione professionale sono, certamente, fondamentali per il recupero sociale degli adolescenti ma non bastano, altrettanto certamente, per la costruzione della loro identità umana. Dov’è (dentro gli istituti) la cura per (ri)trovarla?

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