di Tania Careddu

Dal latino migrare, immigrazione uguale movimento. Ha il pregio di indicare un passaggio, uno status provvisorio. Si parte e si arriva. Si tenta di inserirsi nelle società di approdo. E’ (dovrebbe essere) un’integrazione reciproca tra i migranti e la società d’inserimento. Che si organizza (dovrebbe) in relazione all’arrivo di persone che sono state coinvolte in un processo di socializzazione in contesti caratterizzati da sistemi culturali diversi da quelli di approdo.

Per superare la percezione di uno status definitivo e sottolineare una condizione che è (dovrebbe essere), invece, transitoria, superabile con la pienezza della partecipazione politica e della cittadinanza. Due dimensioni che, in Italia, potrebbero non essere lungi dalla realizzazione piena.

Allo stato, il Belpaese vanta, secondo l’indice di ricerca MIPEX2015, una posizione sopra la media dell’Unione europea, relativamente alla partecipazione attiva alla vita politica, appunto, rafforzata dall’esistenza di spazi per organi consultivi per stranieri, mancando ancora, però, il diritto di voto.

Condizione simile pure per quanto riguarda il tema della cittadinanza - permessi aumentati dal 2012 a oggi, per marocchini e albanesi soprattutto e principalmente nel NordEst -: fermo al gradino precedente, però, cioè la residenza di lungo periodo. Ossia, la tendenza degli immigrati di fermarsi e radicarsi nei territori dello Stivale, è un punto di forza delle nostre politiche di integrazione. Nelle quali l’Italia eccelle: è al tredicesimo posto su trentotto Paesi con un totale di cinquantanove punti, in una scala che va da zero a cento.

Prima fra tutte: la sanità. L’accesso alle strutture sanitarie, all’assistenza e ai diritti fondamentali della salute è garantito. Buona anche la voce relativa ai ricongiungimenti familiari, soprattutto al maschile, a seguito del percorso migratorio di donne che rappresentano le principali fonti di sostegno delle famiglie rimaste nel Paese d’origine. Punti critici: l’istruzione, per la difficoltà a contenere la dispersione scolastica dei minori immigrati e a supportare quelli con più difficoltà e disagi.

E dire che ormai quella italiana è una scuola multietnica: gli alunni stranieri sono circa ottocentodue mila. Pollice verso anche relativamente all’antidiscriminazione: persiste un senso di sfiducia verso le autorità e il sistema di giustizia, portando gli immigrati a un basso livello di denunce per discriminazione.

A metà strada, il mercato del lavoro. La cronicità risiederebbe sia nel fatto che molti giovani immigrati non risultano inseriti nel mondo del lavoro né inquadrati in un percorso di formazione (gli internazionali NEET) sia nell’over education, per cui tanti di loro continuano a svolgere mestieri che raramente rispecchiano il loro grado di istruzione e di competenza.

Per il resto, nel primo semestre del 2014, gli occupati stranieri ammontavano a quasi due milioni e mezzo, costituendo l’11 per cento del totale degli occupati in Italia. E producendo l’8,8 per cento della ricchezza nazionale, per una cifra complessiva di ventitre miliardi di euro.

Sono aumentate anche le loro imprese, del 4,5 per cento, presenti soprattutto in Lombardia, Toscana, Lazio ed Emilia Romagna. Eppure, nel linguaggio (fin troppo) comune, l’immigrato diventa uno stereotipo in base alla nazionalità e allo status sociale che riflette un’immagine di ‘invasore’, come si legge nell’ultimo Rapporto di Caritas-Migrantes, piuttosto che di ‘risorsa’. Pericolo per la sicurezza nazionale. Ma per chiarie l’esistenza di un reale nesso tra immigrazione e criminalità occorre comparare la condizione con quella dei detenuti italiani.

Per sgomberare il campo da qualunquistiche considerazioni, si sappia che la presenza consistente di immigrati negli istituti di pena è dovuta principalmente all’effetto della legislazione repressiva in materia di immigrazione. Non solo. Alla loro (svantaggiata) posizione giuridica: hanno scarse opportunità rispetto agli italiani di usufruire di misure alternative alla detenzione, per la poca fiducia verso di essi sia da parte dei magistrati di sorveglianza sia da parte dei servizi sociali. Reciproco, no?

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