di Tania Careddu

Per deduzione, Dante ed Euclide devono aver frequentato regolarmente l’asilo nido. Se è vero che, sulla base di dati Istat e Invalsi, elaborati da Svimez – Associazione per lo sviluppo dell’industria del Mezzogiorno, nello studio “il più prezioso dei capitali: Infanzia, istruzione, sviluppo del Mezzogiorno”, esiste un nesso evidente tra la frequenza degli asili nido e le buone prestazioni, in italiano e matematica, degli alunni delle scuole elementari.

In Italia funziona più o meno così: primi i bambini trentini che realizzano punteggi superiori a duecentodieci nelle materie sopracitate. Di loro, il 23 per cento, quasi un bambino su quattro, ha frequentato gli asili nido. Uni su cinque in Friuli Venezia Giulia, il 20,7 per cento, che, infatti, raggiunge punteggio duecentotto.

Percentuali a due cifre anche per i piccoli piemontesi, il 15 per cento, e marchigiani, il 17 per cento, che, non a caso, fanno registrare punteggi di duecentosei in entrambe le discipline. Bene anche i minori umbri che frequentano l’asilo nido per il 23 per cento del totale, toccando punteggi pari a duecentotre in italiano e duecentocinque in matematica.

Ma più si scende verso il tacco dello Stivale, più si abbassano i punteggi. Così come le percentuali dei bimbi che vanno all’asilo. Ultimi, i bambini calabresi, i quali frequentano l’asilo nido in misura dieci volte inferiore rispetto a quelli emiliani: ci va il 2,5 per cento con il conseguente esito, alle scuole elementari, di centonovantasei punti. Seguono i campani: 2,8 per cento per centonovantasei punti, i pugliesi con centonovantotto punti e il 4,5 per cento dei bambini frequentanti, l’11 per cento di frequenza per i bambini molisani con centonovantotto punti.

Pari a quelli dei piccoli della Basilicata, dove gli asili nido sono frequentati dal 7,3 per cento del totale, meno di un bambino su dieci. Stessa sorte per i bimbi abruzzesi. Peggio i siciliani con le performance più basse, ferme a centonovanta punti, e solo cinque bambini su cento con lo zaino in spalla nella fascia d’età under ventiquattro mesi. Unica eccezione per il Sud, la Sardegna: segna le migliori performance in italiano e matematica con un punteggio di duecentocinque e un tasso di frequenza del 12 per cento.

Qualità dell’istruzione a parte, i differenziali regionali nei risultati scolastici sono dovuti, anche, a una serie di variabili socioeconomiche (che influenzano la frequentazione degli asili nido). Per esempio, dove c’è maggior ricchezza si trova anche una più capillare diffusione di servizi pubblici per l’infanzia. Mettendo in relazione, infatti, il Pil procapite con la presenza dei servizi citati, emerge che l’Emilia Romagna, il Trentino Alto Adige e il Friuli Venezia Giulia sono le regioni con il più alto numero di asili nido e con la maggiore ricchezza per abitante. Viceversa per Campania, Calabria e Sicilia. Solamente nel Mezzogiorno, nel 2013, un milione di famiglie viveva in condizioni di povertà assoluta.

Che non è solo economica. Diventa povertà educativa: la bassissima partecipazione ad attività culturali e di formazione, quando il capitale umano è più ricettivo che mai, si traduce in (futura) esclusione sociale. Ciò riflettendosi sulle prestazioni scolastiche, accentua le diseguaglianze e contribuisce alla trasmissione intergenerazionale della povertà. Cosicché, quando si arriva a quindici anni, test OCSE-PISA alla mano, le competenze degli studenti in italiano, matematica e comprensione del testo rivelano un’Italia divisa tra Nord e Sud.

Dove il contesto familiare ha un ruolo fondamentale nella spiegazione del divario. Così: fra gli adolescenti del Nord Est il punteggio medio in matematica è nettamente superiore alla media OCSE e in linea con i coetanei tedeschi; quelli del Sud e delle Isole raggiungono punteggi più bassi degli studenti turchi. Idem per la lettura. Ma a ormai è tardi.

Occorre investire sulla primissima infanzia per ottenere il maggior (miglior, ndr) rendimento sociale ed economico. E ripaga in termini di minor tasso di criminalità, minore povertà, miglior produttività sul lavoro, risparmio dei costi per interventi di recupero dell’istruzione, cure, spese giudiziarie e sicurezza. Perciò ridurre, a partire dall’infanzia, le disuguaglianze di partenza potrebbe essere una delle soluzioni per una politica di riequilibrio territoriale.

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