di Silvia Mari

La storia di Angelina Jolie mi raggiunge una mattina, mentre sono seduta alla mia postazione, pronta per iniziare la consueta giornata di lavoro. Sono stupita e sconvolta come se in fondo avessi la sensazione che certi problemi di vita non possano colpire le celebrità e le loro vite fortunate. Un secondo dopo lo stupore provo gioia perché vedo già lo tsunami mediatico che si consuma in queste ore e me ne rallegro perché, pur con tutte le insidie e i rischi, accendere la luce su un tema che ancora fatica ad essere trattato degnamente è un merito ed è un’occasione.

Il clamore raggiunge anche me che, come la Jolie, il 13 dicembre 2007 ho scelto, a 28 anni, di togliermi il seno perché portatrice di una mutazione genetica, nel mio caso BRCA2 che espone all’altissimo rischio di sviluppare il cancro del seno in giovane età (intorno all’80%) e il cancro dell’ovaio secondo percentuali ridotte. Da questa esperienza era nato un libro documento “Il Rischio” che questa testata, con cui collaboro da tempo, ha ospitato sulla propria home page dal 2010 ad oggi e che numerose donne, dal Nord al Sud del paese, ha raggiunto e ha informato. E’ difficile essere rapiti dal frastuono dei media e cercare di dare risalto ai mille volti di storie come la mia.

Il coro dei pareri, i favorevoli e i contrari, rischiano spesso di ridurre e semplificare una scelta che non può che essere complessa e ricca di tanti aspetti da considerare e, purtroppo, la tentazione di dire “è giusto o sbagliato” prima di capire è dietro l’angolo. Ho deciso di rivolgermi alla chirurgia preventiva dopo aver seguito un lungo ed articolato percorso multidisciplinare di sostegno e preparazione, dopo aver vissuto anni nella sorveglianza speciale riservata ai mutati e soprattutto dopo aver avuto in mano una diagnosi del mio rischio genetico che è cosa ben diversa dalla vaga familiarità.

Slegare la decisione da questa evidenza clinica e associarla alla paura del cancro, come ho letto in qualche titolo d’assalto, snatura completamente l’analisi di questa condizione di predisposizione genetica. Alle persone come me la medicina oggi può offrire la sorveglianza, la chemio prevenzione – peraltro poco caldeggiata perché non da garanzie chiare di protezione nel tempo - , la chirurgia.

Pensare che una donna giovane e in salute possa decidere di rinunciare al proprio seno come ho letto o sentito, non un organo neutro come tanti altri, solo per paura o perché ha avuto qualche caso di tumore in famiglia, significa non voler parlare con rigore di cosa sia il rischio genetico. Peraltro le donne che portano in dote una mutazione di questa natura vengono da famiglie che sono state colpite duramente dal cancro e hanno vissuto pienamente – ahimè - nella conoscenza e consapevolezza della malattia.

Nel mio caso decidere di togliere il seno che aveva questo altissimo rischio di ammalarsi è stato anche un modo per non attendere, come una certa cultura fatalista impone, inoperosa il probabile arrivo della malattia. Ho voluto agire, essere protagonista, utilizzare la conoscenza come un vantaggio e liberarmi o ribellarmi. Era questa la mia sola possibilità di riscatto.

La mastectomia preventiva è prevista nelle Linee Guida del Ministero della salute italiano e forse, grazie anche all’outing di una donna celebre, è venuto il momento di parlarne di più e meglio di quanto non sia avvenuto finora, abbandonando pregiudizi e dogmi anche da parte di molti medici.

Ancora una volta l’Italia, che pure prevede questa tipologia di intervento, rispetto ad altri paesi europei e agli USA fatica a vedere in questa opzione una strada da presentare alle donne interessate senza offuscarla con atteggiamenti di resistenza culturale o di rifiuto pregiudiziale in nome della prudenza, dell’attesa, spesso della non reale comprensione di cosa significhi vivere sotto monitoraggio con un rischio di ammalarsi che sfiora la certezza.

Di mettere sul tavolo i numeri del rischio e le armi a disposizione per arginarlo, di entrare nel merito dell’intervento chirurgico e parlare di chirurgia plastico-ricostruttiva contestuale, di tecniche e di innovazioni, dalle protesi ai tessuti autologhi, elementi fondamentali per l’elaborazione di una scelta consapevole e per restituire ad una donna la propria integrità e la propria immagine. Ma significa anche parlare di Breast Unit, di centri specialistici dove recarsi, di informazione a tutti i livelli.

Oggi a 34 anni rifarei tutto quello che ho fatto. Una scelta tanto radicale e irreversibile non può mai essere il frutto di un’emozione. Ho deciso che raccontare poteva essere d’aiuto ad un’altra ragazza come ero io allora. A quella ragazza ho pensato quando ho scritto Il Rischio e quando ho parlato con i colleghi della stampa.

Non ho mai propagandato la mia scelta come una ricetta valida per tutti, ma ho sempre preteso che venisse restituita alla sua validità anche scientifica. Sono la prima a desiderare che la ricerca ci consenta di avvalerci di soluzioni meno invasive,  che la medicina possa offrirci di più che non l’attesa medicalizzata del cancro o l’asportazione di un seno.

Ma per oggi, per questo presente che non ce lo offre, il coraggio di una donna che racconta se stessa, il dolore di perdere una madre, che offre la conoscenza dei suoi geni va riconosciuto come un vero e proprio inno alla speranza. La stessa che ancora prima dei miei 30 anni mi ha fatto scegliere come lei.

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