di Rosa Ana De Santis

La giornata dell’Infanzia e dell’adolescenza, celebrata il 20 novembre scorso in ricordo della ratifica della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, diventa lo spunto per riflettere sulla situazione dell’infanzia nel nostro Paese. E’ sempre più vero che non è possibile studiare la condizione di tanti minori che vivono in Italia, isolandone le condizioni da problematiche che hanno a che vedere con i cambiamenti profondi indotti dall’emigrazione. Sono spesso correlate a questo fenomeno le condizioni di degrado ed emarginazione che penalizzano la vita di tanti bambini e bambine.

E’ il Ministro Riccardi ad aver parlato, a questo proposito, a Rai Radio Uno del tema della cittadinanza che proprio sulle nuove generazioni e i diritti dei bambini mostra tutta la sua urgenza. E’ evidente che i figli degli immigrati, che nascono e crescono in Italia, non possono vivere da invisibili come è adesso. E’ questa ambivalenza ad autorizzare, a tutti i livelli, un atteggiamento culturale di non considerazione effettiva di fondamentali diritti se non di vera e propria discriminazione nell’esercizio di funzioni civili e pubbliche di quei bambini, che un giorno diventeranno adulti.

Il dibattito è  tra Ius sanguinis e Ius soli. Il primo, come anche dichiarato da Riccardi, mostra ormai di essere inadeguato ai cambiamenti che attraversano i paesi e peraltro di essere frutto di una cultura sociologica e antropologica che risponde a principi poco fondati sul piano scientifico e insidiosi su quello dei diritti. Essere cittadini per sangue e per appartenenza etnica difficilmente è un criterio riscontrabile nei paesi moderni.

D’altro canto lo ius soli sembra essere un modo un po’ troppo semplificato di assumere la cittadinanza di un paese. Il semplice atto della nascita su un territorio non può significare per automatismo che si diventi cittadini italiani. E questo è vero specialmente in un paese “poroso”come l’Italia, come lo definisce il ministro, dove nascere per diventare cittadini renderebbe tutto ingestibile a meno che non si volesse riprodurre sui confini della penisola la crudele cortina di morti che divide il Messico dagli Stati Uniti. Persino gli USA stanno infatti ridiscutendo questo loro storico principio.

In un recente incontro con i giovani di alcune scuole romane presso la Sala Aldo Moro della Camera dei Deputati, il Presidente Fini ha dichiarato di essere sostenitore del cosiddetto Ius soli temperato, quello anche definito, come Riccardi dichiara,  Ius culturae. Questa tipologia di acquisizione della cittadinanza  richiede che, oltre alla nascita in Italia, serva almeno aver sostenuto un percorso scolastico. In effetti è nella scuola, fin dai primissimi anni, che inizia quell’autentico processo di integrazione e conoscenza che porta tutti i bambini, figli di italiani e figli di stranieri, a maturare un sentimento di appartenenza e partecipazione alla vita del proprio Paese. Essere cittadini significa proprio “essere parte di”.

Se volessimo prendere a prestito un esempio convincente potremmo pensare alla dinamica della genitorialità legata all’adozione e alla procreazione genetica. I figli adottivi sono figli a tutti gli effetti: uguali a quelli naturali per diritti e per sentimenti, in linea verticale con i genitori e orizzontale con i fratelli e sorelle acquisiti.

Pensare diversamente la famiglia e, per estensione, lo Stato, da una comunità di questo tipo equivarrebbe a recuperare un’idea primitiva e condizionante dell’etnicità che oltre a riesumare fantasmi ci impedirebbe di conoscere l’Europa per come è diventata e di riconoscerci pienamente come cittadini che ne fanno parte.

Il processo infatti che ci consente di riconoscere l’altro cittadino nelle sue differenze peculiari e nei suoi eguali diritti è anche quel meccanismo riflessivo che consente ad ognuno di sentirsi parte di un paese e, ancora meglio, di una storia comune.



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