di Rosa Ana De Santis

E’ accaduto mercoledi scorso alle porte di Roma, a Monterotondo. Un gruppetto di ragazzi prende a calci, schiaffi e spinte una donna tunisina. Le tirano il velo, la insultano, le gridano “kamikaze fatti scoppiare”, le ordinano di togliersi il chador e di tornarsene nel proprio paese. L’aggressione accade in pieno giorno, nel centro di una cittadina non molto grande a pochi chilometri dalla Capitale, e nessuno dei passanti muove un dito per difendere la donna.

E’ di sicuro questo il dato più aberrante di tutta la vicenda. Neila, questo il nome della vittima, è in Italia da oltre venti anni e questo è il primo episodio di violenza così brutale che le sia capitato. Segno che forse questo paese sta assumendo, ora in modo più evidente, tratti d’intolleranza e di razzismo preoccupanti.

Neila denuncia tutto ai carabinieri, e il comandante riferisce alla stampa che si è trattata di una rissa tra cittadini, degenerata solo poi in insulti e spinte di tipo razzista. Quale che sia stata la dinamica della lite, non c’è dubbio che Neila non abbia subito ingiurie neutre, ma che sia stata derisa e fisicamente impaurita con parole razziste e intimidazioni fisiche di ordine discriminatorio. L’aggravante è facilmente deducibile tanto che il reato contestato è di lesioni e non di rissa.

Diventa difficile far rientrare il caso nella banalità di un gruppetto di bulletti annoiati. Difficile perché tra questi ci sono ragazzi grandi, perché si é trattato di una vera  e propria aggressione anti islam e perché nessuno è intervenuto per proteggere Neila, a parte sua sorella. Forse proprio per quel velo che disturba, ricordando agli occhi dell’ignoranza collettiva la non italianità di chi lo indossa. Ignoranza di chi non distingue la religione dall’appartenenza ad un paese, di chi crede che islamico significhi terrorista, di chi pensa che indossare il velo sia contro la legge italiana.

Non parliamo del burqa, infatti, che impedisce l’identificazione di chi lo indossa e che non è ammissibile per ragioni di sicurezza collettiva oltre che per principio di una democrazia che non può ammettere tale discriminazione di genere. Parliamo di un velo sul capo per coprire i capelli che nasce dalla libera adesione ad una fede religiosa.

Il dibattito sul velo, va detto, è tutto tranne che semplice. Non molto tempo fa fu il governo francese ad occuparsene alla ricerca (vana) di un divieto liberale ad indossarlo. Sarà vero che la donna che lo porta non è spesso pienamente libera nei propri diritti civili, sarà che il più delle volte è indotta da abitudini familiari vessatorie ad indossarlo, fatto sta che imbarcarsi alla volta di una sorta di obbligo di legge a misurare la reale emancipazione delle donne ci porterebbe a dover entrare nelle case di tutti. Anche di tutti quegli italiani che massacrano di botte fino ad uccidere le proprie mogli (e le ultime statistiche fanno impallidire), senza il bisogno di essere islamici.

L’episodio di Neila non è nulla di tutto questo. Non ha a che vedere con le difficoltà di convivenza tra culture lontane, è più semplice e più profondo nello stesso tempo. Semplice come la stoltezza e il vuoto mentale di un mirato bombardamento mediatico che nasce spesso più dai telegiornali che dalle trasmissioni di contorno. Semplice come gli strilli dei quotidiani e come il commento domenicale al bar tra un goal e un altro. Profondo, instillato ormai in un rigurgito di ricorsi storici mai sedati; vige l’odio razziale tra le persone comuni, tra i più giovani soprattutto.

Nemmeno quello della vulgata che se la prende con chi arriva in Italia per mendicare o per spacciare o per rubare il lavoro agli italiani o con l’ubriaco al volante. Ma quello che arriva a scagliarsi contro una mamma che beve un caffè al bar e che toglie, come ha tolto, a ogni cittadino perbene il coraggio e l’onore di difenderla.

 

 

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