di Mariavittoria Orsolato

Nonostante il nostro Premier faccia di tutto per farci credere che l’Italia è impermeabile alla crisi e che, anzi, lo stivale veleggia più sereno rispetto ad altri Stati, nel nostro Paese accade ancora di imbattersi in storie che per la mortificazione che le contraddistingue non hanno nulla da invidiare ai racconti di Dickens o di Zola. Succede a Trento: una giovane madre si vede togliere il figlio neonato in quanto, secondo il Tribunale dei minori, un reddito di 500 Euro mensili è troppo poco per mantenere un bambino in fasce.

La ragazza, presumibilmente una delle moltissime precarie, era in difficoltà economiche già al momento della gravidanza, ma ciò nonostante aveva ugualmente deciso non abortire, appellandosi alla possibilità dell’affido condiviso; una procedura che consente a genitori in difficoltà di farsi aiutare da un’altra famiglia nell’allevare il bambino. Poco dopo il parto, però, Il Tribunale ha dato avvio alla procedura di adottabilità e il neonato è stato sottratto alla madre, senza che quest’ultima fosse stata interpellata o minimamente informata.

A denunciare questo innegabile abuso è stato lo psicologo e psicoterapeuta Giuseppe Raspadori, un consulente tecnico del tribunale tridentino, che nel corso di una conferenza stampa ha espresso le sue critiche contro il modo, spesso troppo arbitrario, con cui i giudici sentenziano la sospensione della potestà genitoriale. Il caso della giovane mamma non è, infatti, il primo in questo senso. Poco meno di quattro mesi fa, sempre a Trento, un alunno di seconda elementare veniva prelevato da due assistenti sociali durante la ricreazione.

In questo caso la madre era accusata di aver “instaurato con il figlio un rapporto di fusione”: stando alla sentenza dello stesso tribunale, la donna, con i suoi atteggiamenti troppo amorevoli e il suo attaccamento - giudicato eccessivo - non sarebbe stata in grado di garantire il benessere psicofisico del bambino.

Due casi che, in pochi mesi, hanno puntato gli occhi su Trento e sulla sua gestione della giustizia minorile. Stando al dottor Raspadori infatti, la prassi con cui il Tribunale dei Minori separa i bambini dalle madri, in seno all’incapacità genitoriale vera o presunta, è “un abuso scientifico”. Lo psicologo, nel suo intervento, ricorda come l’affidamento a terzi di un infante è una pratica che giuridicamente dovrebbe essere utilizzata solo di fronte a casi gravissimi e a motivazioni eccezionalmente preoccupanti: fino a qualche anno fa un minore era coattato lontano dal nucleo familiare solo dopo aver accertato eventuali abusi domestici e/o violenze sessuali.

Le due storie che arrivano da Trento non hanno invece a che fare con lo scenario tipico delle malversazioni: le madri, entrambe incensurate e prive di alcuna tossicodipendenza (farmaci compresi) sono state penalizzate in quanto madri single: la prima perché presumibilmente incapace di mantenerlo, la seconda perché probabilmente non avvezza a far crescere il figlio maschio con la “giusta dose” di testosterone.

E’ forse questo che la giustizia intende per tutela dei minori? Le modalità con cui i figli sono stati strappati alle madri denotano un marcato pressappochismo psicologico e non tengono in debito conto del connaturato legame che, già dalla gestazione, unisce in modo inscindibile una donna alla sua prole. Agendo in modo così sbrigativo, i giudici del Tribunale minorile di Trento rischiano, infatti, di fare più danni di quelli che, immaginiamo in buona fede, vogliono prevenire.

In particolare, nel caso della giovane neomamma, la tempestività con cui i magistrati hanno agito va a compromettere la fase di allattamento e svezzamento: la ragazza ha potuto incontrare il giudice che aveva disposto la sentenza solo dopo un mese che quest’ultima era stata eseguita e, l’unico risultato ottenuto, è stato quello di far avviare una perizia una sulle sue capacità materne. Una perizia che - se a buon fine - le restituirà un figlio di 8 mesi, privato di quella prima e fondamentale fase di attaccamento.

Senza contare il danno psicologico mastodontico che viene inflitto alla donna, messa in discussione su quello che dovrebbe essere un istinto atavico e che lei stessa ha fieramente dimostrato, scegliendo di far nascere un figlio nonostante versasse in condizioni economiche più che precarie.

La domanda sorge spontanea: perché, invece che procedere all’allontanamento, i giudici non hanno disposto, che so, l’accoglienza in una struttura protetta? A questa giovane mamma sarebbe bastato un lavoro decente, uno stipendio non miserabile, magari un semplice alloggio a canone concordato per non dover pagare gli affitti esosi della città. Si è invece preferito staccare il bimbo dal seno, probabilmente (e stupidamente) pensando che, essendo neonato, questi non avrebbe sofferto la separazione. Ma forse le ragioni sono più banalmente di tipo utilitaristico: è indubbio che allo Stato costi molto meno un’adozione, rispetto agli oneri che derivano da due bocche affamate. Alla faccia di quelli che chiedevano la moratoria sull’aborto.

 

 

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