di Rosa Ana de Santis

L’inchiesta è chiusa. la posizione dei sanitari coinvolti è sempre più grave e molto più leggera la responsabilità degli agenti penitenziari indagati. L’accusa per sei medici, tre infermieri e un dirigente del provveditorato regionale dell'Amministrazione penitenziaria è quella di “abbandono di incapace”, reato grave, ben più dell’iniziale accusa di omicidio colposo. I tre agenti sono accusati di lesioni e abuso di autorità. La storia di Stefano è divisa esattamente a metà. L’arresto e il tribunale e poi l’ospedale Pertini. E’ tra queste due zone d’ombra che finora sono rimbalzate le accuse e i sospetti. Li chiama “vuoti” Ilaria, l’indomita sorella di Stefano. Quei sei giorni di agonia occultati, ritrattati e scoperti a piccoli pezzi.

La decisione di rendere pubbliche le carte della commissione parlamentare sul comportamento dei sanitari che avevano seguito il caso di Cucchi (che ha visto contrario il solo Pdl) ha messo ancora meglio in evidenza i drammatici contorni dell’abbandono terapeutico in cui Stefano è stato lasciato. Rianimato a tre ore dalla morte per prevenzione, ignorato nelle sue elementari richieste di ricevere conforto e nella prosecuzione fatale di uno sciopero della fame e della sete che Stefano interrompe alla mezzanotte del giorno prima di morire quando chiede invano una cioccolata. Lui non sa e non comprende quanto si siano aggravate le sue condizioni. Ma i medici sanno bene che per salvarlo basta un po’ di zucchero che torni a far salire la glicemia. Il suo catetere è occluso, ma nessuno se ne accorge e l’urina risale nella vescica. L’orrore prosegue e il corpo di Stefano si sgretola. Quella stanza come una baracca di Aushwitz,  dice il legale della famiglia. Poi i reni di Stefano si fermano in modo irreversibile. E’ finita.

La famiglia però non vuole dimenticare perché Stefano sia finito al Pertini e non accetta sconti di gravità per chi ha massacrato di botte il figlio. A ricordarlo insieme a loro c’è anche il Presidente della commissione parlamentare Ignazio Marino. Se non avesse subito botte e calci con inaudita violenza non sarebbe finito con le ossa rotte in regime di ricovero. E se qualcuno non avesse avuto paura delle sue parole e della sua testimonianza, forse non sarebbe morto.

La famiglia di Stefano si dice soddisfatta della formulazione del capo d’accusa, aldilà della quantificazione del reato a carico della polizia. Ma la morte di Stefano è per loro un omicidio con tanti carnefici ed è solo così che possiamo raccontarla. Un omicidio iniziato con le botte e concluso con un’agonia prolungata e deliberatamente ignorata che è tutta scritta addosso a Stefano e al suo corpo rattrappito come quello di un deportato.

Sul banco degli imputati quindi ci sono tutti. Perché tutti l’hanno ucciso. Questa è la verità che la famiglia di Stefano rivendica e che non baratterà per qualche briciola di condanna sotto i riflettori. Non sarà facile in un paese anestetizzato agli abusi di Stato. Ma ha capito bene la famiglia di Stefano che il primo passo della giustizia doveva essere ricordare e raccontare. Far vedere tutto, i particolari, i dettagli, le cronache delle ultime ore a prezzo di qualsiasi critica. Perché chiunque non potesse dimenticare l’ultima foto di Stefano. E’ lì che stanno tutti i suoi assassini.  

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