di Rosa Ana de Santis

Il 9 maggio la pillola anticoncezionale compirà negli Stati Uniti i suoi primi 50 anni. Una rivoluzione culturale dirompente che nel nostro Paese, numeri alla mano, sembra essersi interrotta o non essere mai iniziata. In Italia si abortisce, si ricorre alla pillola del giorno dopo e le donne sono all’ultimo posto per l’uso di contraccettivo orale. Dopo anni di dosaggi sempre più bassi si è arrivati addirittura alla pillola tutta naturale. Segno di una medicina che vuole essere sempre più attenta alla salute delle donne e che esprime una maggiore prudenza, di quanta non ce ne fosse agli inizi, sui rischi degli estrogeni.

La pillola ha comunque rappresentato un’opportunità fondamentale per l’emancipazione delle donne, finalmente libere di autogovernare il desiderio di maternità senza dover mediare qualsiasi decisione con il proprio partner. La solitudine di un gesto che poteva restituire ad ogni singola donna l’autonomia della progettualità, di decidere del proprio corpo e della maternità senza imposizioni che fossero familiari o di autorità pubbliche. Il riconoscimento ufficiale, dopo secoli d’imperio maschile, di un’emancipazione nel letto e nella società.

La trasmissione di questa libertà non è stata però così netta ed efficace come previsto. Qualcosa si è incrinato ed è saltato in parte il patto generazionale tra madri e figlie. Il pensiero femminista era certo che, anche grazie alla pillola, la liberazione della sessualità femminile dalla riproduzione e dall’egemonia del sesso maschile sarebbe stata totale. Eppure, ancora oggi la metà delle gravidanze negli Stati Uniti non è programmata. Un’ingenuità pensare che siano tutte donne disinformate e sprovvedute. Basta arrivare ai dati italiani poi, offerti dalla Sigo - la Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia - per rendersi conto ancora meglio di quanto elementi storico-culturali possano intervenire con potere condizionante sulla diffusione della pillola anticoncezionale, anche in un momento in cui notizie e informazioni circolano in abbondanza. Solo il 16% delle donne italiane ha la pillola sul comodino. Numeri bassissimi rispetto agli standard europei. La differenza tra il Nord e il Sud del nostro paese è molto forte.

Ancora più difficile da credere quello che accade nel mondo delle giovani adolescenti alle prime esperienze sessuali. Il resoconto di moltissimi sportelli di assistenza psicologica nelle scuole medie inferiori e superiori della Capitale racconta di penosi rimedi fai da te. Dal bidé di Coca Cola a quello con il dentifricio. Il tam tam di queste ricette, che assomigliano pericolosamente al prontuario del medioevo femminile, circola velocemente tra le giovanissime. Le ragazze la pillola la conoscono, ma non la usano. Vuoi per la sopravvivenza di pregiudizi sul peso e sulla pericolosità, a suo tempo messi in circolo dalla controriforma cattolica e dai medici obiettori, vuoi perché la vivono come un’invasione. Una sorta di medicina obbligata per il semplice fatto di essere donne che proprio non va giù.

Non è stato sufficiente trovare il rimedio farmacologico, peraltro importante anche nella cura di varie patologie femminili, per affrancare in via definitiva la sessualità delle donne dalla riproduzione. La valutazione delle contingenze culturali, sociali ed economiche è passata in secondo piano con la speranza che il farmaco bastasse all’esercizio dell’autodeterminazione femminile. Ma le cose non stavano proprio così e i condizionamenti culturali hanno avuto un’influenza molto forte.

Se il ricorso alla contraccezione di emergenza rimane preferibile all’assunzione quotidiana della pillola e se questo non ha a che vedere solo con donne disinformate e prigioniere dei maschi, è evidente che si tratta di un problema che attiene a un rifiuto della pillola e alla percezione della contraccezione chimica come una medicina per le donne. Se fosse un autentico oscurantismo religioso a impedirne in Italia la diffusione, non avremmo nemmeno la pillola del giorno dopo, né il ricorso alla legge 194. Esiste una variabilità culturale nel modo di sentirsi donne, madri e mogli di cui non si può non tener conto e che non può essere ricondotta al solo criterio valutativo dell’emancipazione o della non emancipazione, della cultura o dell’ignoranza.

Sembra che alle nuove generazioni la pillola sia arrivata come il rimedio prescrittivo di un limite. Quello di essere donne e di poter rimanere incinte. Quello di una donna che se la sbriga da sola. Soprattutto un’alterazione della norma naturale che in una cultura come quella italiana, avvinghiata al dogma della natura come criterio di orientamento morale, non poteva che diventare un’extrema ratio consigliata dal ginecologo, piuttosto che un’abitudine scelta autonomamente dalla donna. Questo forse spiega perché sia accettata la pillola del giorno dopo: una violazione dell’ordine naturale giustificata dall’emergenza.

L’idea di un rimedio che togliesse agli uomini in via definitiva ogni ruolo nella decisione della maternità, non funziona evidentemente come formula di emancipazione per le donne italiane. Rimane da stabilire se sia il mito della famiglia a sopravvivere, un’emancipazione incompleta o soltanto un diverso e rispettabile modo di essere donne libere. Il pensiero femminista oggi ha un tema da mettere sotto la lente: la comunicazione interrotta tra madri e figlie, la rottura di un’alleanza generazionale che non ha trasmesso per intero quel patrimonio che è stata la rivoluzione delle donne.

Oggi le figlie di quelle donne sono liberissime di vivere il sesso, di raccontarlo, soprattutto di esibirlo, ma altrettanto decise a privarsi di qualsiasi difesa contraccettiva. Sono le loro madri dicono le statistiche, donne adulte e sposate, a prendere la pillola. Interrogarsi sul perché di una rivoluzione interrotta è quello che va fatto in occasione di un anniversario simbolico così importante come quello della pillola. E alle donne la responsabilità di trovare le risposte.

 

 

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