di Giovanni Cecini

La tradizione e i media ci ricordano che nel periodo di Natale sia le persone che i dolci sono più buoni. Su questi ultimi è difficile pronunciarsi, visto che è difficile mangiare torroni e panettoni ad agosto e, anche se qualcuno lo facesse, di sicuro essendo avanzi di mesi prima, sarebbero con probabilità meno saporiti del loro periodo canonico. Per quanto riguarda le persone, un cappello rosso con pon pon bianco in testa o un addobbo in casa non rendono la società più cordiale o gioviale, se è vero che lo shopping - e il relativo traffico prefestivo - trasformano gli agguerriti consumatori di pacchetti e cotechini nevrotici, irascibili e stressati dalla bella figura, che è d’obbligo fare con i regali per suoceri, mogli, mariti, figli e amici.

In tutto ciò è evidente che quanto di più vero e di intimo possa esprimere la nascita di Gesù Cristo, in un Paese che si dichiara per la stragrande maggioranza credente, rappresenta un accessorio secondario, ormai asfissiato da festoni, ghirlande, nastri e lucette colorate. Forse, mosso da questo gran chiasso da circo equestre, il papa Benedetto XVI ha trovato opportuno domenica scorsa durante l’Angelus esprimere l’intendimento di andare a ricercare quei valori, più autentici e ricchi di significato, che il Natale rappresenta per i cristiani.

L’elogio maggiore è stato per il presepio, che oltre ad essere preparato, dovrebbe essere vissuto. L’esame dei componenti di questo quadretto dovrebbe essere - secondo il Pontefice - un ammaestramento per la collettività: dalla famiglia sfortunata ma gioiosa di Giuseppe e Maria, al calore dei poveri pastori, fino a tutti coloro che nel nulla si commuovono dinnanzi al dono della vita, seppur nata all’interno di una stalla, tra bestie maleodoranti, freddo pungente e condizioni pessime di ordine igienico-sanitario, come diremmo oggi.

Tuttavia a ben vedere lo spirito del Natale, se così va inteso, è lontano anni luce con quello che ci circonda e con il clima proposto dalla società. Il presepio (o presepe) è relegato a una mera comparsa, se si considera che per cultura é un elemento identitario della tradizione italiana. Eppure San Francesco, non a caso patrono d’Italia, inventore e primo realizzatore di presepi, è di gran lunga surclassato da quel remoto San Nicola, che definiamo di Bari, ma originario della costa anatolica, che con varie trasformazioni paganeggianti è divenuto Santa Claus ovvero Babbo Natale.

Interessante per esempio il comportamento degli esponenti leghisti, che un giorno vorrebbero utilizzare il tricolore al bagno, l’altro giorno inserirvi il simbolo di Cristo per antonomasia e il giorno successivo attaccano la Chiesa e i suoi vescovi, perché la loro fratellanza universale cozza con l’idea civile e razziale della celtica Padania.

Questa breve carrellata, accompagnata all’ormai irrinunciabile albero addobbato con palle e festoni, dimostra che la cultura italiana è in prima linea nel difendere i crocifissi, ma risulta distratta nell’affermare l’origine stessa del Natale, ossia la nascita di un bambino, che secondo la fede cristiana, sarebbe il figlio di Dio e il Salvatore dell’umanità.

Ciò è documentato dalla frequente e dimostrata circostanza in cui, se in una casa manca l’albero di Natale, chi vi capita in visita si chiede: «Ma l’albero?». Inutile dire che pochi o nessuno si stupiscono dell’assenza del presepio, al di fuori di chiese o mostre tipiche.

Questo ragionamento quindi ci dimostra, se ne servisse la riprova, che ormai anche in Italia da diversi anni ci si è incanalati in una ipocrita ambientazione del Natale, senza mangiatoia e senza il suo messaggio di pace. Tutto si risolve in abbuffate, regali, giocate a carte, bambini sorridenti perché vedono nel 25 dicembre un doppione del proprio compleanno, forse anche più ricco di quello originale, e tante coreografie teatrali e posticce.

L’industria del Natale tira molto bene; ne sono la conferma la crescita vertiginosa di pubblicità di profumi, di offerte telefoniche, di alimenti ipocalorici, che oltre a far male alla salute, portano all’indomani dell’Epifania in grossi complessi di colpa o alla sfrenata ricerca di soluzioni adeguate al responso della severa bilancia.

In tutto ciò cosa resta del Natale, durante il quale tutti sarebbero più buoni? Se consideriamo le reazioni di una folla inferocita, pronta al linciaggio contro un folle, responsabile di un’azione sciagurata, nei pressi di Piazza Duomo a Milano, allora la risposta ce l’abbiamo da soli. Per quanto Massimo Tartaglia possa aver commesso un’azione criminale, tra l’altro approvata in modo neppure troppo celato da larga parte dell’opinione pubblica italiana, non sembra proprio lo spirito giusto proporlo per la forca in piazza, come invece molti hanno dimostrato pochi attimi dopo l’inconsulto gesto contro Silvio Berlusconi.

Questi episodi sono la prova di un clima in cui gli stessi che si ergono a pompieri per spegnere gli ardori degli esagitati e propongono di abbassare i toni, sono anche temerari incendiari pronti a colpire l’avversario, se trovato in malaugurato fallo.

Speriamo che sotto l’albero, se il presepe è poco gradito (e non solo a Casa Cupiello), un giorno si possa trovare almeno la consolazione di trovare una coerenza, che molto spesso si è andata perdendo. Finché si è disposti a guardare solo la pagliuzza del vicino, senza notare il trave nel proprio di occhio, forse non c’è Natale che tenga: Gesù Cristo non troverà neppure una stalla ad accoglierlo e il monito teologico di Benedetto XVI sarebbe pieno di un significato non solo religioso.

 

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