di Rosa Ana De Santis

Hanno contratti a termine non rinnovati, sono in cassa integrazione, hanno collaborazioni interrotte, sono stati licenziati da un’azienda che ha perso l’appalto di turno, o vivono con pensioni minime. Sono loro, siamo noi: i nuovi poveri. L’Italia peggiore degli ultimi 50 anni, esibisce i nuovi titoli della povertà. Non è più povertà estrema, non è quella delle icone tradizionali. Vive e veste normalmente. La si trova nei paesi come nelle città, nelle campagne come nelle zone industriali, sempre più dismesse per fare posto alla delocalizzazione, che significa decentramento, parcellizzazione, isolamento e sfruttamento. Il rapporto presentato dalla Caritas a Roma denuncia un aumento significativo ed una nuova identità dei poveri italiani.

L’erosione costante di quello che un tempo veniva identificato con il ceto impiegatizio, il suo sprofondare negli inferi del sottoproletariato, delinea le facce, i luoghi e la disperazione delle nuove povertà, che chiedono aiuto e trovano indifferenza. Soprattutto al Sud le percentuali delle persone che chiedono aiuto sono in aumento. La conferma arriva dalle diocesi e dai centri d’ascolto coinvolti e monitorati per la stesura del rapporto. A bussare alle porte della Caritas non è il mendicante solito. La povertà ha cambiato faccia e vestiti, abitudini e rappresentazione.

Il 20,8% degli italiani ha chiesto aiuto per un sussidio economico a fronte di un reddito non più sufficiente per mantenere le consuete aspettative di vita. Sono nuclei familiari che spesso perdono, d’un colpo, la possibilità di vivere autonomamente ricorrendo all’appoggio dei familiari. I servizi vantaggiosi o gratuiti che ci aspetteremmo per le famiglie a basso reddito sono carenti. Soggetti a lungaggini burocratiche, a parametri non aggiornati rispetto ai nuovi numeri del bisogno, rischiano di risolversi - il più delle volte- in un nulla di fatto. Il paradosso, anche questo emerge dalla ricerca della Caritas e della Fondazione Zancan, testimonia l’anomalia per la quale le Regioni che più contano persone in difficoltà economica più spendono, peraltro senza alcuna finalizzazione riscontrabile nella politica del welfare.

Le Regioni in questione sono Sicilia, Sardegna e Basilicata dove le percentuali superano il 20%. Numeri a parte poi per gli stranieri che in Italia vivono una pagina buia della loro immigrazione: con le politiche restrittive loro imposte, rischiano l’invisibilità sociale e quindi l’impedimento di fatto a potersi affrancare da un bisogno che diventa endemico, stabile, connotativo di una condizione esistenziale, di un’identità.

La nostra povertà, in perfetto allineamento con quella mondiale segnalata dalla Croce Rossa e dalla Mezzaluna Rossa in Europa e in Asia, è figlia di una crisi globale parallela a una crisi sistematica dei diritti dei lavoratori e ad una speculazione affaristica per poche cupole. Nel nostro paese la politica deregolata sul lavoro ha nullificato tanto le garanzie e le protezioni del posto sicuro - ora tornato verbalmente di moda -  quanto, paradossalmente, quella del reale ricambio. La flessibilità si è sciolta totalmente, o quasi, nella precarietà. A pagarla spesso i giovanissimi, i più preparati, quelli che non hanno scelto di lasciare il Paese.

La povertà che non si vede e non si tocca è anche quella che non fa progetti. Che non ha la libertà e la sicurezza necessaria per farli. E’ quella dei pochissimi figli italiani, delle relazioni frammentate e chiuse a singhiozzi di tempo. Ma tutto sopravvive in una blindata normalità che ci è vicina, ci appartiene, è diffusa, non è sconvolgente. Ed è questo a condannare i nuovi poveri. Li vediamo e non li ascoltiamo. Per colmo di condanna, assomigliano troppo a tutti gli altri.
 

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