di Rosa Ana De Santis

La storia di Omar Ba, senegalese di 29 anni, è strana. Insolita e un po’ stonata per la nostra coscienza collettiva ormai satura, quasi appagata dalla marea continua che porta dall’Africa folle di bisognosi sulle nostre spiagge. E’ normale sentire radicato un canone culturale di superiorità su quel tappeto di stranieri che quando non muoiono immediatamente di povertà, fuggono e rimangono nascosti, o stanno a guardare, impotenti, familiari e compagni di viaggio inghiottiti dall’odissea della miseria. Un viaggio così è quello che ha fatto Omar Ba e lo ha raccontato in un libro dal titolo “Sono venuto, ho visto e non credo più”. Ha provato a raggiungere l’Europa dal deserto algerino, poi ancora con un’imbarcazione che l’ha portato a Lampedusa. Dopo 48 ore di fermo è stato rispedito in Marocco. Ce l’ha fatta passando per le Canarie e rimanendo clandestino per due anni a Madrid. Chiuso nel frigorifero di un camion è poi arrivato in Francia. Oggi studia all’Università di Parigi e lavora per un ONG. La sua testimonianza racconta della depressione e della solitudine che patisce chi vive nella condizione perpetua della fuga, chi non trova solidarietà, chi soffre l’estraniazione e la lontananza da casa. Un aspetto che rifiutiamo di comprendere commettendo l’errore di un’amnesia storica che riguarda il nostro album di famiglia soltanto di ieri. Il miraggio della vita migliore iniettato come una medicina nei giovani africani si traduce oltre che in una bruciante delusione, nel mantenimento di uno status quo che, nel lungo periodo, continuerà a fornire, a uso e consumo di pochi, chili di disperazione umana. Che significa non solo essere discriminati o emarginati, spesso per legge come sta accadendo in Italia. Ma significa patire, aspettare, ringraziare la clemenza o la bontà o la tolleranza del cittadino ricco e liberale di turno. Una forma ancora più infiltrante e pericolosa di sudditanza culturale.

Anche Omar Ba sta pensando di tornare nel proprio Paese, una volta terminati gli studi di sociologia. E’ assolutamente convinto che lavorare per il proprio Paese, investire le conoscenze e le competenze acquisite, sia l’unico modo, non velleitario, di costruire un futuro di sviluppo per il suo Senegal. Dice Ba al giornalista di Afrika.com che lo intervista “ Quest’onda migratoria sta svuotando l’Africa del suo sangue vitale; voglio che i giovani africani ascoltino il buon senso. L’Europa non merita che rischino le loro vite. Qui troveranno solo sofferenza”.

La storia di Omar ricorda quella di Muhamad Yunus che, tornando in Bangladesh da professore di economia e premio Nobel, la sua rivoluzione l’ha iniziata sul serio, cambiando le vite della propria gente e integrando l’economia vincente dei ricchi con un nuovo approccio al concetto di profitto che ora può tornare utile persino alle nostre piazze degli affari, per evitare nuove disfatte finanziarie come quella che investe ancora le nostre borse.

L’Europa non merita le sofferenze dei migranti, racconta Omar. Ed è l’Europa ad offrire sempre meno all’Africa, anche secondo il presidente del Senegal, Abdoulaye Wade. Tornato a denunciare a Bruxelles la politica dell’Unione del Mediterraneo, guidata da Francia ed Egitto, per il piano d’infrastrutture che tenderà ad isolare sempre di più i Paesi dell’Africa Subsahariana. Avvisa il presidente Wade che lo sviluppo di questi Paesi isolati potrebbe passare da India, Cina e Brasile. Prezzi ridotti e crediti maggiori potrebbero infatti essere risolutivi per molte economie che oggi rischiano di peggiorare a causa del debito accumulato, rimanendo strozzate senza possibilità di emancipazione reale, aldilà delle moratorie spot con cui di natale in natale l’Occidente ripulisce le piazze e le coscienze.

Omar racconta di come i più giovani in Africa siano allevati con la promessa della felicità d’oltremare. Del trauma che si vive impilati come oggetti in piccole celle di grandi palazzoni, del peso insopportabile con cui si viene guardati per strada o nei luoghi di lavoro. La maldisposizione degli Europei verso gli stranieri è un tema ineludibile. La solitudine che si prova, la frustrazione di chi si ritrova immerso nel benessere che ha solo sognato e di giorno in giorno ha sempre meno opportunità di poterlo raggiungere. E così che spesso alcool e crimine rovinano tantissimi immigrati. Il mostro di una fragilità che divora le resistenze. La nostalgia degli affetti e di un modo di vivere e pensare che qui in Europa non è mai davvero compreso, né accettato, diventa spesso insopportabile e si diventa peggiori di quando si è partiti. Suona strano a chi è sempre impegnato ad arginare i numeri dei migranti, a contenere i saccheggi che temiamo, a porsi domande, anche in modo ragionevole, sull’invasione delle nostre città dover ascoltare una storia così. Suona strano sentire, dalle parole di un immigrato che ha sofferto e che ce l’ha fatta, che qui non è l’Eldorado. Nessun paradiso. Nessuna felicità.

Questa stravagante testimonianza deve arrivare come una fragorosa delusione per il calvinista dei denari e della morale. Non tanto per il tema della felicità mancata, non c’è pericolo, visto che fin dalla tenera età insegna ai suoi figli non ad essere felici, ma a vivere rendendosi degni di esserlo. Il racconto di Omar è certamente la reazione amara a un sogno che è stato promesso come un miracolo, ma ha un indubbio valore di provocazione. Anche per quei casi in cui la fuga e il viaggio sono davvero, almeno all’inizio, il presupposto fondamentale per sopravvivere, per scampare. Alle guerre ataviche, all’istruzione negata anche quando i college sono pubblici sulle carta, alle carestie, alla peste di malattie per le quali in Africa si deve morire. A tutto questo spesso non c’è la forza o la maniera di trovare un rimedio lì. La consapevolezza e gli strumenti arrivano, quando arrivano, magari dopo. Dopo quando si può tornare.

Nella storia di Omar si respira una tristezza fatta di calma. Il viaggio è stato fatica estrema. Troppo grande l’altezza dei ricordi, sottili e consumati dal tempo e dai chilometri i legami che si lasciano laggiù. Ma la sua storia serve, soprattutto qui. Qui da dove li si vede arrivare, lavorare, stare nelle strade e nelle case, nella metro la sera. Sempre un passo indietro. Un po’ lontano. Qui dove il loro viaggio rimane incompiuto ogni volta in cui l’accoglienza è negata, o ridotta, o offerta come beneficenza. Atto di assoluta bontà o di pubblico encomio. Scelta supererogatoria d’illuminati politici o di anime sante.

L’esperienza di Omar serve a smascherare senza troppi convenevoli il paradiso e la felicità promessa che è norma credere sia capitale e patrimonio occidentale. La sua è una lucida lezione inconsapevole, un trauma di sostanza per chi nasce qui ereditando il vizio genetico della supremazia e della singolarità come categoria di riferimento. Particelle di uomini e donne, atomizzazione dell’esistenza, società incollate come mosaici dove l’accoglienza è una variante e un’eccezione. E’ sempre un fare. Un agire. Mai un modo di essere e pensare che l’Altro non é e non dev’essere per necessità colui che rimane lontano.

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