di Rosa Ana de Santis

Si chiamava Giuseppe Turrisi: 58 anni, originario di Agrigento, ospite del dormitorio di viale Ortles. Andava spesso nello scalo ferroviario milanese. Una stazione che diventa un rifugio, lì dove siamo abituati a vederne tanti, tra una banchina e l’altra, rannicchiati sulle scale che portano ai sottopassaggi, confusi nel tappeto frettoloso di chi aspetta il treno per andare a lavoro o per rientrare a casa. Questa volta le cronache non raccontano di una morte per freddo sotto coperte rimediate di scatoloni, ma di un pestaggio mortale che sarebbe avvenuto il 6 settembre scorso negli uffici della Polizia. Una costola fratturata gli ha perforato la milza mortalmente. In carcere, per la sua tragica fine, sono agli arresti due agenti della Polizia Ferroviaria con l’accusa di omicidio. La loro versione dei fatti non ha convinto il gip Marina Zelante, l’autopsia li ha smentiti, così come in parte le telecamere della stazione. Un battibecco con la vittima che diventa, nel segreto degli uffici, una violenza selvaggia che nulla ha a che fare con quanto riportato nel ridicolo rapportino. I due poliziotti, infatti, a verbale avevano messo un’altra storia. Un barbone come tanti in preda ai fumi dell’alcool che improvvisamente nei loro uffici, armato di taglierino, sarebbe diventato pericoloso. Disarmato e trasportato in ambulanza in condizioni non gravi, per un dolore al petto sarebbe morto poco dopo.

Così dopo lo smascheramento di una storia a dir poco traballante sono partiti i due ordini di custodia cautelare e l’accusa di omicidio volontario che tiene i due imputati in carcere ad Opera. La notizia è difficile da trovare. Le agenzie non hanno fatto la solita gara per lanciarla. Perché il fatto è scomodo come tutti quelli che vedono sul banco degli imputati le forze dell’ordine e i vertici del Ministero degli Interni. Poco altro può stupire ancora l’opinione pubblica se a leggere criticamente la sentenza sui fatti del G8, che su 29 imputati ne ha visti assolti 16 sedici, si ricava la sensazione fondata che uno stato di immunità de facto assolva tutti o quasi i comportamenti in divisa. E ancora - per citare un'altra testimonianza recente di questa impunità - la storia della morte del giovane Gabriele Sandri per mano dell’agente Spaccarotella, che in tribunale oscilla tra la tesi del colpo deviato prima e la non volontarietà dell’omicidio dopo.

Forse questa volta doveva essere tutto più semplice, se a morire non era un ragazzo con una famiglia alle spalle, un blog che lo potesse raccontare a tutti e che raccogliesse l’affetto di chi non lo dimenticherà. Se la vittima è un invisibile, la notizia quasi non c’è e la verità può diventare un accessorio inutile che nessuno andrà mai a cercare. Ma non è andata così, almeno per ora, almeno questa volta.

Alcuni funzionari della Questura di Milano, conservando l’anonimato, hanno già iniziato ad esprimere perplessità sul capo d’accusa contestato ai due imputati. Non convince la tesi della volontarietà, ma subito ci tengono ad evidenziare che la Polfer dipende direttamente dagli Interni e non dalla Questura. Circola l’idea tra gli intervistati che l’impegno delle forze dell’ordine, la fatica di un lavoro difficile, possano indurre per necessità ad usare maniere forti, senza per questo voler procurare la morte di qualcuno. Paolo Orsenigo, uno degli avvocati dei due agenti Polfer, porta avanti la tesi che i suoi assistiti siano stati aggrediti da un taglierino e che subito dopo i due, nella colluttazione, siano caduti sul corpo della vittima. L’impatto potrebbe aver causato danni così seri solo a causa delle condizioni fisiche già compromesse della vittima. Un altro avvocato difensore, Giuseppe Fiorella, sostiene che l’emorragia interna che ha causato la morte del Turrisi non è stata procurata dalle percosse, ma sostiene anzi che l’uomo fosse arrivato negli uffici dei poliziotti già ferito.

Insomma a voler ricostruire la storia con rigorosa fedeltà ai racconti dei due imputati e dei loro legali, sarebbe andata all’incirca così: il povero barbone, dopo aver minacciato gli agenti e aver accusato un forte dolore al petto, già ferito, sarebbe deceduto forse schiacciato dal peso dei due poliziotti caduti involontariamente su di lui. L’imbarazzo di questa somma surreale di presunte ipotesi di morti, di ferimenti preventivi, di taglierini incontrollati e di probabili infarti basta da sola a gettare un’ombra di sospetto sulla ricostruzione dei fatti, pur sapendo che il vero zoccolo duro delle indagini sarà l’accertamento della volontarietà, quasi mai esperibile - questo racconta la storia - per le forze dell’ordine. Loro che lo fanno per mestiere accampano attenuanti in più. Così pare.

Basta una divisa. E’ bastata per i vigili urbani di Parma per picchiare indisturbati il 22ene Emmanuel Bonsu Foster, denigrandolo con volgari insulti razzisti. Anche allora sembrava che la confusione di Emmanuel con uno dei pusher della città e la tesi inverosimile della sua caduta accidentale potesse scagionarli.

Ma cosa assolve davvero gli uomini in divisa dalle loro responsabilità? Lo stress del lavoro difficile o la seduzione di indossare la stella da sceriffi? O la longa manus di un protettorato che viene dall’alto? Questa volta sarà più difficile smascherarli. Più difficile del solito. Non avremo un coro di memoria per Giuseppe Turrisi. Fantasma in stazione e per le strade, con un passato che di lui ci lascia solo qualche espediente di vita vagabonda. Quella che è finita in un giorno come tanti altri passati nella stazione di Milano, tra calci e pugni che lui non può raccontare più.

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