Quello che é cominciato è il ventesimo anno dalla caduta del muro di Berlino e per molti versi si presenta come la chiusura di un ciclo ventennale, seguito al termine della Guerra Fredda. Fin da quel 1989 si sentì la mancanza di un nemico: all'improvviso il mostro sovietico non esisteva più e cadeva la possibilità di dirsi migliori per differenza, mettendo i governi di tutto il mondo di fronte a responsabilità nuove, ormai denudati dello schermo costituito dallo stato di necessità imposto dalla divisione del mondo in blocchi. Venti anni dopo possiamo dire che il confronto con queste nuove responsabilità sia fallito su tutta la linea e che il prossimo anno sarà il peggiore dalla fine della seconda guerra mondiale per molti paesi. Caduto il muro ci fu chi parlò di fine della storia e chi dell'avvento di un mondo di pace, progresso e benessere e ben pochi osarono obbiettare, la fine di un lungo incubo non poteva che essere accolta con favore.
In quel tempo sembrò che la dimostrata superiorità delle democrazie occidentali fosse il punto di partenza per la costruzione di un mondo nuovo, fondato su presupposti provati e ricette certe e che il tramonto delle ideologie avesse finalmente spazio ed energie che avrebbero permesso al mondo di trovare un proprio equilibrio, migliorando le condizioni di vita di ogni abitante del pianeta. Oggi è doloroso ammettere che non è stato così, anche per chi non abbia mai voluto chiudere gli occhi sugli evidenti difetti di sistemici che fin da allora si individuavano come forieri di disastro.
Il crollo dell'Unione Sovietica non si portò via solo regimi polverosi e l'ideologia del socialismo reale, ma trascinò nel baratro anche l'esercizio critico e ridusse grandemente il diritto di tribuna di quanti non fossero allineati all'unanimismo che plaudeva al vincitore dell'epico confronto. Morta l'Unione Sovietica, cominciò un periodo nel quale l'unica superpotenza rimasta assunse la guida della comunità internazionale, ma le cose non cambiarono sensibilmente. Le guerre si succedettero alle guerre per un decennio, piccole guerre che giunsero fin nel cuore dell'Europa come quella nella ex-Jugoslavia e grandi guerre che fecero milioni di vittime in Africa, come la sconosciuta Prima Guerra Mondiale Africana che sterminò un numero di congolesi approssimato per difetto ai cinque milioni.
La fine della Guerra Fredda non ha significato la fine delle guerre, ma non ha significato nemmeno il trionfo del sistema economico vincente nel confronto con quello socialista. Ben presto si capì che da allora in poi “libero mercato” avrebbe assunto il significato di mercato nel quale i soggetti più forti sono liberi di fare quello che pare loro. “Libera volpe in libero pollaio” si disse per rendere l'idea, senza aggiungere che le volpi erano troppe e troppo avide. Già verso il decimo anno dalla caduta del muro divenne chiaro a tutti che non esisteva alcuna possibilità di autoregolamentazione dei soggetti economici, niente di nuovo, ma una consapevolezza di ritorno che si estese ad una platea più amplia, destinata comunque a rimanere ancora a lungo soffocata e ignorata.
Poi venne la presidenza Bush, il vero Anticristo del capitalismo del ventesimo secolo, capace in soli otto anni di innescare numerose guerre, demolire gli Stati Uniti nell'immagine e nella carne e trascinare l'intera economia mondiale nel baratro in nome del libero mercato e di Dio. Una strana coppia, che avrebbe dovuto far riflettere anche ci era troppo impegnato a raccogliere i frutti di un illusorio benessere e di un'effimera ricchezza, ma che invece passò come una delle tante bizzarrie. Quel richiamo a Dio era invece la spia di un deficit di razionalità insito nel modello che poteva essere colmato solo evadendo nella metafisica, dove logica e ragione non valgono. Non era comunque sufficiente: all'alba del ventunesimo secolo il sistema scricchiolava già in maniera preoccupante, i suoi effetti perversi sulle vite degli umani si facevano evidenti come gli insuccessi del Fondo Monetario Internazionale e delle sue politiche, che già nel 2000 avevano devastato le economie dei paesi poveri a vantaggio delle grandi multinazionali.
Con l'undici settembre del 2001 il corso della storia subì un'accelerazione repentina, offrendo agli Stati Uniti l'opportunità di dispiegare la loro ipertrofica macchina militare, mantenuta tale e quale nonostante il tramonto della potenza sovietica. Un'occasione colta al volo con entusiasmo degno di miglior causa: finalmente si manifestava un nemico spendibile, contro il quale chiamare all'alleanza incondizionata i governati e i dubbiosi. Anche la guerra divenne allora un affare “liberista”, permettendo agli alfieri del libero mercato di quotare in borsa aziende che fondavano la loro ragione sociale e i loro profitti sulla guerra, fino ad autorizzare la privatizzazione ed esternalizzazione di gran parte della guerra stessa. Una mossa che da sola basta a illuminare la stupida malvagità di una classe dirigente che affida l'esito di una guerra a chi ha tutto l'interesse nel farla durare e nel farne lievitare i costi economici ed umani. La quotazione in borsa delle compagnie militari private (PMC o PMF), è stato il vero punto di non ritorno; il potere economico metteva le mani su quello militare esautorando di fatto ogni controllo politico e cancellando di fatto il monopolio statale sulla violenza, che a lungo era stato un pilastro delle democrazie parlamentari.
Tutto questo è accaduto senza sollevare troppe resistenze, mentre la fondamentale assenza di alternative sistemiche corrodeva dall'interno democrazie ormai indifese di fronte a chi teorizzava la fine degli stati nazionali e l'avvento di una confusa idea di governo mondiale che non si è mai capito da cosa traesse legittimità, se non dall'essere il governo dei campioni dell'economia. Senza ideologie e senza idee, senza una scala di valori che non fosse quella monetaria, senza controlli che non fossero affidati ai controllati, il sistema è corso a passi veloci verso il collasso prevedibile e previsto. Già negli anni settanta un agile libretto intitolato “I limiti dello sviluppo” aveva previsto che al rarefarsi delle risorse sarebbe aumentata la richiesta di unità di capitale per unità prodotta ed era ovvio, già da allora, che il presupposto della “crescita infinita” fosse fallace quanto pericoloso. Per ovviare all'inconveniente le oligarchie economiche non hanno trovato di meglio che creare artificialmente masse enormi di capitali privi di qualsiasi ancoraggio alla realtà, creazione resa possibile dalla velocizzazione delle transazioni finanziarie, dall'assenza di controlli e dalla costruzione di complessi castelli finanziari all'interno del quale il valore nominale si moltiplicava come per incanto.
Tanta ricchezza non è però stata diffusa, al contrario all'aumentare della ricchezza è corrisposto un suo progressivo dirottamento verso un numero sempre più ristretto di persone e soggetti economici, ad allargare la forbice della distribuzione dei redditi a livelli mai visti prima. Aiutare i ricchi a diventare più ricchi non ha prodotto altro che poveri, smentendo un altro dei pilastri della narrazione neoliberista, quello che sostiene che la concentrazione delle ricchezze favorisca l'aumento complessivo delle stesse. Oggi sappiamo che quelle ricchezze sono state bruciate da quanti erano attesi ad usarle come un magico volano ad aiutare l'arricchimento collettivo, mentre la creazione di ogni ricco è costata alla collettività la creazione di un numero molto più elevato di poveri.
Il ventesimo anno sarà quindi quello della crisi, su questo non ci sono dubbi. Una crisi economica come nessuno ha mai vissuto prima e dalla quale non ci sarà scampo. Non sarà una guerra a risolverla e non sarà un colpo di fortuna a scongiurarla, ma il peggio è che già da ora possiamo contare sul fatto che sarà gestita nella peggior maniera possibile, con grande danno per le collettività. Sembra stupido e al limite dell'inumano, se non fosse che la stupidità è propriamente umana, ma gli incaricati di rimediare alla crisi sono gli stessi che l'hanno provocata, da qui l'inevitabilità del disastro. Già i primi atti non lasciano dubbi, le montagne di denaro pubblico buttate nel calderone della crisi sono sparite nei gorghi della finanza senza lasciare traccia, andando a risarcire i colpevoli delle malversazioni piuttosto che le loro vittime.
Nel corso del ventesimo anno la voragine nei conti si amplierà inesorabilmente, nonostante le borse mondiali abbiano perso metà del loro valore negli ultimi mesi, la traiettoria verso il basso non può dirsi conclusa. Scenderanno ancora, e molto, i valori immobiliari, ma sarà soprattutto la crisi del credito a fare danni. Basta un solo dato per far tremare i polsi: oltre la metà dei mutui americani hanno come unica garanzia il bene immobiliare per acquistare il quale sono stati accesi. Con il deteriorarsi delle condizioni economiche è facile intuire che se i mutuatari agiranno “razionalmente”, saranno portati a liberarsi di debiti con un valore eccedente il bene sottostante, restituendo senza altra penalità le case senza valore a banche che dovranno tagliare dai bilanci ancora cifre imponenti. Facile immaginare che la disponibilità del credito calerà ancora e che chi avrà denaro fresco lo utilizzerà per comprare a prezzo di saldo o fallimento, frustrando le speranze dei sedicenti economisti che in questi mesi si sono esercitati sul tema. Non è strano che ai fondamentalisti del mercato sfuggano dettagli del genere, nemmeno recentemente, nel bel mezzo di uno scenario che più recessivo non si può, hanno rinunciato a parlare di “stimoli alla crescita”.
Ancora meno strano è che i soldi pubblici iniettati nel sistema non siano entrati in circolo e non abbiano sortito effetti visibili: fin troppi hanno immediatamente trasformato gli aiuti pubblici, destinati a pesare in forma di debito sulle generazioni a venire, in dividendi azionari. La crisi non ha ucciso l'anelito al profitto immediato, meglio incassare subito i dividendi che impegnare quei soldi in salvataggi dall'esito incerto, così l'ampliamento del debito pubblico è servito fino ad ora solo a risarcire pochi e selezionati soggetti delle perdite che loro stessi avevano determinato giocando con il fuoco della finanza creativa.
Sembra un gioco nel quale vinceranno sempre gli stessi, con grandi danni per le collettività e per l'idea stessa di democrazia, ormai succube ovunque delle reti tessute da un'oligarchia ovunque uguale a se stessa. All'alba del ventesimo anno possiamo solo essere sicuri che questo sarà peggio del precedente, un pessimismo rafforzato dall'assoluta mancanza di alternative politiche alla crisi. Anche le più vitali democrazie occidentali sono da tempo succubi della finanza più ignorante e avida, consumate in logori bipartitismi che ricordano più la logica di una mano che lava l'altra che quella di un'alternanza virtuosa al governo. Parole come etica e morale pubblica sono ormai diventate bestemmie da “giustizialisti”, per non parlare dell'interesse pubblico.
In realtà da quel lontano 1989 la democrazia sul pianeta ha fatto solo passi indietro, basti pensare alla Russia, da anni governata dal fu KGB, al monopartitismo cinese o al pensiero unico statunitense, capace di rendere indistinguibile i repubblicani dai democratici e di escludere qualunque altro soggetto politico e gran parte dei cittadini dalla gestione della cosa pubblica. Nel nostro paese non siamo messi meglio: il bipartitismo imperfetto non ha offerto nulla di diverso e tutti gli indicatori sono in picchiata, già prima dello scoppio della crisi abbiamo raggiunto il 40% di analfabeti funzionali, un record nei paesi industrializzati del quale non andare troppo fieri, un mattone che non serve per costruirci sopra niente di buono, utile al massimo per legarselo al collo saltando nel fiume.
Il ventesimo anno sarà quindi sicuramente peggiore dei precedenti non solo perché non vi potrà avere cittadinanza l'ottimismo berlusconiano e non solo perché i terribili effetti della spaventosa crisi economica si dispiegheranno nelle loro reale virulenza in una inarrestabile spirale al ribasso. Il ventesimo anno sarà il peggiore della nostra vita perché rappresenterà la certificazione più brutale che “questo mondo non è possibile”, ma soprattutto perché questa scontata conclusione sarà inesorabilmente ignorata da chi fino ad oggi ha goduto dei guadagni impossibili offerti dal sistema impossibile. Non cambierà nulla, i media del sistema spettacolare continueranno come se niente fosse a parlare d'altro e a proteggere i veri responsabili di questo disastro epocale, non fosse che per permettere loro di recuperare qualcosa, ancora una volta ai danni delle solite masse inconsapevoli.
In mancanza di svolte significative la crisi di fiducia nelle oligarchie che si auto-perpetuano al potere continuerà però ad aumentare, il controllo sociale attraverso l'unanimismo dei media non è perfetto e non ha il potere di lenire le prevedibili sofferenze, il rifiuto della responsabilità da parte delle elite nutrirà un parallelo rifiuto di responsabilità da parte di quanti non appartengono alle elite. Una situazione potenzialmente incendiaria, che nell'anno che si chiude ha infiammato solo la Grecia, ma che di fronte all'aumento della temperatura sociale prevista nel corso di questo ventesimo anno, non autorizza nessuno a dormire sonni tranquilli.
IL VENTESIMO ANNO
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