di Mario Braconi

La dottrina incomprensibile, retrograda e contraddittoria della chiesa cattolica, viene diffusa sui media con grande tempismo ed impegno mistificatorio; ciò accade anche perché il Paese, immemore della sua importante cultura laica, risulta particolarmente vulnerabile ad infiltrazioni di tipo clericale. Benché in un paese non teocratico la pubblicazione di un simile documento non farebbe alcun titolo di giornale, in Italia la notizia di un documento (“Istruzione”) emanato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (un tempo detto Sant’Uffizio e ancora prima Santa Inquisizione) è stata ripresa ed approfondita dai media. Ad esporre alla stampa il contenuto della Dignitas Personae il cardinale Javier Lozano Barragan, il quale condanna “ogni soppressione della vita”, assimilando con surreale disinvoltura l’aborto agli assassini per mafia. Il porporato ce l’ha in particolare con la RU486 (pillola abortiva), un farmaco che egli ritiene di catalogare tra quelli che “non sono tanto innocenti per la salute delle donne che li assumono”. Guarda caso, l’anatema vaticano viene pronunciato il giorno 13 dicembre, cioè pochi giorni prima della data per la quale era attesa la decisione finale sulla distribuzione in Italia del farmaco abortivo RU486 (19 dicembre). Il formidabile assist vaticano viene immediatamente sfruttato dal fronte degli ultrà papisti, capitanati da Eugenia Roccella, protagonista di un inspiegabile quanto sconvolgente percorso politico dalle file del femminismo Radicale all’intransigenza cattolico-romana. Roccella, già portavoce dell’indimenticabile parata del “Family Day”, è autrice di un libro scritto a quattro mani con l’antiabortista cattolica doc Assuntina Moresi (“La favola dell'aborto facile. Miti e realtà della pillola RU486”) titolo che chiarisce come l’obiettivo polemico delle autrici si concentri su quell’aggettivo, “facile”. Intelligenza, sensibilità ed esperienza di vita suggerirebbero alle due signore che “aborto facile” è un ossimoro: ipotizzare che una donna possa considerare con leggerezza una scelta devastante come l’interruzione volontaria di gravidanza è, prima che una idiozia, un’inaudita volgarità.

Il ragionare di Roccella e Moresi attorno “facilità” dell’interruzione volontaria di gravidanza tradisce l’ossessione di questi (come di altri) oltranzisti cattolici: l’aborto è un peccato, per cui è necessario che, in un modo o nell’altro, lo stato lo trasformi in un reato; poiché però tale pratica è, ahimè, regolamentata da una legge dello Stato, occorre per lo meno che la donna vi ricorra affrontando un vero calvario laico, fatto di burocrazia, violazioni del corpo e dell’anima quanto più possibile dolorose, invasive ed umilianti: le servirà da lezione per la prossima volta.

A dispetto di quanto sembrano ritenere i due cerberi dell’ortodossia cattolica, la RU486 non ha il potere di cancellare il dolore psichico di un aborto: più prosaicamente, il suo principio attivo, il mifepristone, somministrato nelle prime settimane di gravidanza, inibisce la produzione del progesterone, causando quello che viene definito un aborto medico. L’aborto medico è una valida alternativa a quello chirurgico: una volta assunto il farmaco, la donna attende per qualche ora in ospedale, dopodiché può tornare a casa. Tre giorni dopo le viene somministrata della prostaglandina, che causa l’espulsione.

Il fatto che l’interruzione volontaria di gravidanza possa avvenire in modo meno traumatico per la donna, non è mai andato giù a Roccella e ai suoi sodali. I quali tutti negli anni scorsi hanno lanciato un’offensiva mediatica violenta e mistificatoria, il cui scopo era instillare il sospetto che la procedura farmacologica comporti un concreto rischio di morte per le donne che vi si sottopongono. Uno studio pubblicato nel dicembre 2005 dal prestigioso New England Journal of Medicine, secondo cui tra le pazienti sottoposte ad aborto mediante RU486 si è riscontrato tasso di mortalità di 1/100.000, rispetto allo 0,1/100.000 degli aborti chirurgici, è stato brandito come una clava da Roccella e soci per impedire l’introduzione di questo farmaco nel Paese.

Gli antiabortisti made in Italy non si sono soffermati troppo a spiegare che quattro dei cinque casi citati nella ricerca si sono verificati nella sola California (cosa invero inspiegabile) e che la stessa Food and Drug Authority ha dichiarato che non esiste alcuna prova di relazione diretta tra l’uso della RU486 e l’infezione che ha ucciso le pazienti; a loro del resto interessava solo l’argomento della percentuale di rischio di morte moltiplicata per dieci rispetto all’aborto chirurgico, di indubbio impatto emotivo. Tanto per mettere le cose nella giusta prospettiva, comunque, la statistica ci ricorda che il rischio di morire a causa della RU486 è pari a quello di morire per un aborto naturale, e di molto inferiore a quello di morire in gravidanza (10/100.000); per inciso, un prodotto come il Viagra ha un tasso di mortalità del 5/100.000.

Nonostante il battage orchestrato, tra gli altri, dal quotidiano della CEI L’Avvenire, in Italia vi sono ospedali come il santa Chiara di Trento, in cui su 150 aborti l’anno, la metà viene effettuato con la RU486, una legge italiana consente infatti di acquistare all’estero il farmaco necessario al paziente qualora egli ne abbia bisogno, bypassando la mancata autorizzazione del farmaco in Italia. La RU486 è infatti è stata approvata ed è liberamente distribuita in Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Gran Bretagna Grecia, Israele, Norvegia, Spagna, Russia, Sud Africa,Svezia e Svizzera. Mancano solo Irlanda ed Italia, nazioni notoriamente prone ai diktat vaticani.

Non a caso, il celebre immunologo Professor Aiuti ha definito le “dichiarazioni di alcuni politici terroristiche e pretestuose, in quanto contengono informazioni scientifiche inesatte e cercano di creare un falso allarme sul problema di un ipotetico grave rischio per questo tipo di aborto farmacologico connesso all’uso della RU486, approvata dalla Commissione Europa dopo numerose e controllate sperimentazioni cliniche”.

In realtà, il riconoscimento italiano dovrebbe essere un semplice passaggio tecnico, dato che, come rileva l’associazione consumeristica ADUC, la direttiva europea 2001/83/EC prevede che l’Italia approvi la richiesta di mutuo riconoscimento entro 120 giorni dalla sua presentazione (90 per prendere accordi con il governo francese e altri 30 per definire prezzo ed etichettatura). Poiché la procedura è stata avviata in Italia a dicembre 2007, e ad oggi l’AIFA non ha ancora preso alcuna decisione, è evidente che l’Agenzia è oggetto di una forte pressione politica il cui obiettivo è ritardare quanto più possibile la l’autorizzazione: impedirla ormai non è possibile.

Benché la Commissione tecnico-scientifica dell'Agenzia italiana del farmaco (AIFA) abbia dato parere favorevole all'immissione in commercio del farmaco, mancano ancora due passaggi fondamentali per l’autorizzazione all’uso ospedaliero della pillola: l'esame da parte della Commissione prezzi e rimborsi, ed il parere finale del Consiglio di Amministrazione dell'Agenzia. A dispetto degli scettici, gli anatemi vaticani hanno già prodotto un miracolo: il consiglio di Amministrazione dell’AIFA, anziché il 16 dicembre si riunirà a febbraio 2009. Chissà che cosa s’inventeranno in questi mesi i nostri parlamentari bigotti.

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