di Sara Nicoli

Guardiamoci negli occhi. Lo sapevamo tutti che Tommaso era morto. Ce ne siamo resi conto già poche ore dopo il sequestro, quando il volto disfatto e lacerato dal dolore dei due genitori è apparso davanti alle telecamere per mostrare una siringa piena di un farmaco necessario alla sua sopravvivenza. E' stato lì, in quel momento, che la sottile inquietudine del presagio ha fatto breccia anche nelle anime più semplici. E nei giorni a venire è diventata una verità inconfessabile come il più atroce dei peccati, quella mancanza di speranza che arriva dalla conoscenza degli uomini e del mondo e di cui non ci si fa mai una ragione. Tommaso, piccolo, fragile e malato, non sarebbe mai potuto sopravvivere per trenta giorni lontano dalle cure della sua mamma. Ma un conto è il sospetto, l'intuizione. Un altro è trovarsi davanti alla ferocia dell'uomo, nella sua crudeltà più vera e reale, al male assoluto. E rendersi conto di non aver ancora trovato dentro se stessi i mezzi, la forza, per farvi fronte. In questi giorni, seppur distratti dal frastuono assordante e volgare della campagna elettorale, quella sottile inquietudine sulla sorte di Tommaso è riemersa diverse volte.
E l'altrettanto sottile accettazione del fatto che un orrore potesse essersi consumato davvero, dà la misura di quanto siamo assuefatti al delitto, all'assenza di valori minimi ed essenziali, alla banalità dell'orrore. Non crediamo più nell'uomo e per estensione non ci fidiamo più di nessuno, di vicini di casa e di colleghi, di quelli che come noi fanno la fila al cinema o alla cassa del supermercato, che si lamentano dei prezzi e del traffico che intasa le strade. E proprio quando la riflessione ci solleva per un attimo dal pessimismo e dall'angoscia di un nulla dilagante, ecco che arriva la notizia che Tommaso è morto, preso a badilate in testa per farlo smettere di piangere da due balordi che rincorrevano il sogno dell'unico successo che questa società propone come punto d'arrivo per essere riconosciuti come vincenti: la ricchezza, il denaro, l'ostentazione del benessere.
E siamo daccapo.

Parma è una città piccola, ma è l'esempio, lo spaccato, della provincia italiana di successo. Sulle rive dell'Enza i poveri, i miserabili, gli emarginati sono pochi e per lo più stranieri e anche i più poveri della comunità sono in realtà dei "non ricchi", non certo degli indigenti. Anche gli assassini di Tommaso, almeno a sentire gli inquirenti, facevano una vita meno facile di quella dei vicini di casa, per via di un lavoro faticoso e forse troppo umile rispetto al giudizio di una comunità provinciale, che indulge troppo spesso nel classismo mascherandolo da bonarietà emiliana. Ma non erano poveri. Rincorrevano il sogno di essere ammessi, come si diceva una volta, in società. Volevano senz'altro di più, volevano essere al pari degli altri, affrancarsi per sempre da quella provincia siciliana di provenienza che non aveva saputo dargli nulla, a parte la voglia di fuggire e tornare indietro "da vincitori". Cioè solo ricchi, nulla di più. Per questo, forse solo per questo, non hanno esitato un attimo a rapire ed ammazzare un bambino come Tommaso. Che hanno avuto modo di toccare, di tenere in braccio, di sentire caldo e umido di febbre, di lacrime e di disperazione come ogni cucciolo strappato con crudeltà e freddezza dall'abbraccio della mamma. Quello stesso bambino che a noi, che non abbiamo avuto altrettanto privilegio, aveva destato tenerezza e amore solo per i suoi immensi occhi chiari e dolcissimi sparati sulle foto dei giornali. Il denaro è stata una leva più forte. Anche per una donna. Che pur essendo anch'essa madre di un bimbo poco più grande di Tommaso e per di più malato come lui, si è comportata come il sicario più spietato, complice assoluta di un marito prima stupratore poi assassino; portatrice sana di quel detto antico da cui pensavamo che l'evoluzione ci avesse affrancato e che è la negazione stessa della carità e dell'umanità come valore: mors tua, vita mea.

Davanti a tanto scempio, enfatizzato dagli striscioni allo stadio, dalle dichiarazioni di sdegno e di cordoglio, da uno sfogo collettivo forse necessario, ma indecente, l'unica cosa di cui sentiremmo il bisogno adesso sarebbe il silenzio. Perché si hanno pochi dubbi sul fatto che questa storia possa riservare ancora nuove e più laceranti rivelazioni. E non vorremmo che poi, alla fine, la morte così violenta di un bambino passasse in secondo piano rispetto a chissà quali altre inconfessabili nefandezze e pruriginosi segreti di una provincia perbene che la giustizia, anche quella migliore, farà come sempre fatica a punire nel modo che vorremmo. Guardiamoci negli occhi, sappiamo anche questo. Che se gli assassini saranno poi condannati all'ergastolo, forse non finiranno i loro giorni in carcere: le attenuanti o la buona condotta sono sempre in agguato. E sappiamo anche altro. Che per chi ammazza un bambino, le patrie galere possono diventare più atroci di un girone dell'inferno, ma non è certo questo il tipo di giustizia a cui tendiamo e che auspichiamo. Né, tanto meno, ci uniamo al coro sguaiato di coloro che invocano la pena di morte per gli assassini, come se questo ci restituisse Tommaso. A meno di non voler diventare proprio come loro e come molti altri, che della banalità del male hanno fatto la sola e unica misura della loro, miserabile, esistenza.

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