I numeri deL rapporto SOFI (State of Food Insecurity) recentemente pubblicato da Onu, Fao, Ifad, Unicef e Pam, fanno paura: la quota di chi è condannato a vivere in costante insicurezza alimentare rimane di 733 milioni per il terzo anno consecutivo. Il 36 per cento in più di un decennio fa, quando le Nazioni Unite avevano inserito la «fame zero» tra i 17 Obiettivi 2030 per lo sviluppo sostenibile. Ci sono 152 milioni aggiuntivi di affamati rispetto al pre-Covid. Una persona su undici non ha da mangiare, percentuale che in Africa diventa una su cinque.

 

L’unica regione dove si sono registrati miglioramenti è l’America Latina. In termini assoluti, l’Asia è la regione che ospita il maggior numero di persone denutrite: oltre la metà del totale, vale a dire 384,5 milioni di persone, contro i 298,4 milioni in Africa, i 41 milioni dell’America Latina e 3,3 milioni in Oceania.
Agli oltre 700 milioni in condizioni estreme, vanno sommati i 2,3 miliardi di donne e uomini in situazione di insicurezza alimentare moderata e grave. Tre quarti dei più poveri vivono nelle aree rurali dei Paesi in via di sviluppo. Un paradosso crudele perchè sono proprio i piccoli produttori a sfamare il pianeta: molte delle persone che producono il cibo che mangiamo non sono in grado di nutrire se stesse e le loro famiglie.

Oltre e sopra la sacrosanta indignazione per uno stato di cose che certifica come il pianeta si regga sulla profonda diseguaglianza tra un Nord che divora e un Sud che viene divorato, si deve indicare come, anche dal punto di vista strettamente contabile, emerge una volontà politica che risponde all’esigenza di ampliare - e non ridurre - le differenze in funzione di una più efficace governance imperiale. E’ per questo che i 2344 miliardi di Dollari, che corrispondono per difetto a quanto il mondo spende annualmente per armamenti, non vengono nemmeno in piccola parte dirottati per l’emergenza alimentare. Del resto, la questione resta sempre la stessa: chi ha il denaro non ha fame e chi ha fame non ha il denaro.
Quelli che, pomposamente, vengono definiti investimenti per combattere la fame nel complesso degli aiuti allo sviluppo, sono in realtà poco più di una elemosina. Alla sicurezza alimentare va meno di un quarto degli aiuti destinati allo sviluppo: in media 76 miliardi di dollari l’anno tra il 2017 e il 2021, di cui solo il 34 per cento è stato investito per contrastare i fattori scatenanti.

Per i consulenti di Banca Mondiale, Fondo Europeo di Sviluppo e Fmi, secondo le stime della Banca africana di sviluppo, gli investimenti necessari per realizzare i programmi presentati all’African Food Summit di Dakar (febbraio 2023) ammontano a 10 miliardi di dollari Usa all’anno, da aggiungere a quelli già in atto, per un costo totale degli investimenti nel settore agricolo delle economie dell’Africa subsahariana di 28-36 miliardi di dollari all’anno nei prossimi cinque anni. Il costo sarebbe sostenuto in parte dai bilanci nazionali, in parte dai donatori bilaterali e multilaterali.

Se lo si raffronta al Pil attuale dell’area - duemila miliardi di dollari nel 2022 e agli investimenti annui totali lordi di 470 miliardi di dollari - sembrerebbe un costo sostenibile.
Le stime dei finanziamenti necessari per combattere fame e malnutrizione si attestano su diverse migliaia di miliardi di dollari, secondo la Fao. Ma anche lo stesso riutilizzo dei finanziamenti esistenti per l’alimentazione e l’agricoltura potrebbe dare un contributo significativo. Una delle chiavi che il rapporto suggerisce è impiegarli in modo massiccio per dare ai contadini dei Paesi poveri i mezzi per difendersi dal surriscaldamento generale. Fattore a cui sono tragicamente vulnerabili.

Ma davvero l’Occidente vuole procedere sulla green economy generalizzata o è solo un modo efficace per contenere lo sviluppo dei BRICS? Più il secondo, si dovrebbe dire, visto che si rivela falsa anche la narrazione occidentale di una presunta responsabilità di Russia ed Arabia Saudita che spingerebbero sul baratro il clima per sostenere il fossile con l’estrazione di idrocarburi. Come scrive il Guardian, “sono i paesi occidentali ricchi che guidano l’espansione globale di gas e petrolio”. Infatti circa la metà di tutti i progetti di aumento previsti per il petrolio e il gas da qui al 2050 saranno approvati da governi ricchi e occidentali che si autoproclamano leader climatici: Stati Uniti, Canada, Australia, Norvegia e Regno Unito. Campione d’ipocrisia (come sui diritti umani) la Norvegia, dove il governo cerca di attirare l’attenzione sul numero di veicoli elettrici sulle sue strade, ma mantiene un vorace appetito per le trivellazioni di petrolio e gas.

Il rapporto segnala che servirebbero sistemi di produzioni resistenti al clima e una produzione agro-ecologica del cibo diversificata e su mercati alimentari localizzati, invece che su catene alimentari industriali globali. E le corporation della distribuzione? Davvero qualcuno crede che ci siano governi occidentali capaci di contenerne gli appetiti monopolistici? E servirebbero soprattutto programmi di protezione sociale che garantiscano il diritto al cibo per i più poveri del mondo. Ma chi dovrebbe mettere mano al portafogli?

La stessa porzione di mondo che si sviluppa solo mantenendo l’altra nel sottosviluppo e che nelle sue stesse politiche interne azzera implacabilmente la spesa sociale e trasferisce risorse pubbliche all’impresa privata, generando così maggiore povertà ed incertezza economica persino in Occidente? Quello di cui nel rapporto non si tiene conto è che solo la volontà politica forma la logica degli interventi e che, come è sempre stato, spopolare il Sud del mondo appare un business strategico di suprema importanza per le voraci ed onnivore mandibole del Nord. Il sottosviluppo era e continua ad essere la conseguenza e non l’infanzia dello sviluppo.
L’aspetto però più inquietante è che la difficoltà a procurarsi cibo riguarda 119 nazioni, oltre il 50% della comunità internazionale tutta, dunque i motivi non sono essere ricondotti solo ai cambi climatici, per importanti e gravi che siano: le guerre, le crisi economiche improvvise, la speculazione finanziaria sui prezzi degli alimenti incidono quanto e più del riscaldamento globale. Del resto, anche nei decenni addietro, quando il tema ambientale non costituiva una minaccia conosciuta come nei tempi odierni, comunque le condizioni di denutrizione erano alte in oltre il 60% del pianeta ed altissime in Asia e Africa; erano cioè dipendenti da un modello di sviluppo concepito per destinare le risorse ai ricchi e il debito ai poveri.

Ha valore simbolico, sebbene in veste di paradosso ripugnante ma nello stesso tempo illuminante, il fatto che, a tutt’oggi, una vacca francese o texana ingerisca più proteine quotidiane di una persona nell’Africa sub-sahariana o come la spesa per diete e chirurgia estetica destinata alla riduzione del grasso in Occidente, continui ad essere enormemente superiore a quanto si spende per la nutrizione della parte più povera del Sud del mondo.

Emerge, con l’aumentare della concentrazione della ricchezza in poche mani e l’ampliamento della povertà ai quattro angoli del pianeta, il fallimento sistemico di una economia liberista dominante che fa dell’accumulazione primaria in forma speculativa, della de-industrializzazione e del progressivo cedimento all’economia drogata e non corrispondente alle reali dimensioni, la cifra fondamentale del sistema economico dominante.

Un mercato borsistico che si regge su regole prive di senso, carenti di ogni idea di funzione sociale dell’intrapresa e con l’obiettivo di generare ad ogni passaggio virtuale i ricavi strategici per un capitalismo senza capitali. Un Monopoli 3.0 osceno che funziona come una maionese impazzita, che ritiene di poter estrarre con la forza ciò di cui non dispone ma che si trova altrove per mantenere così il suo modello privo di ogni logica e utilità sociale.

Ormai, il turbo-liberismo è fallito miseramente. Ambiente, politica, economia, sociale, militare, tecnologia, alimentare, idrica. Nella declinazione del lessico giornalistico e politico, ognuno di questi temi ormai è preceduto dalla parola crisi e la preoccupante novità che segna la fase terminale del capitalismo ultraliberista è che la promessa di miglioramento generale delle economie delle popolazioni si è dimostrata una truffa. E’ un capitalismo che non risolve nessuno dei problemi esistenti ma anzi ne crea di nuovi ed irrisolvibili con le soluzioni che il sistema stesso si auto ricetta.

Mai il mondo è stato così ricco e nello stesso tempo così affamato. Addirittura, la povertà crescente nei paesi periferici ha raggiunto anche quelli centrali e l’idea criminale di sistemare i conti attraverso guerre e sanzioni produce ulteriore impoverimento (oltre che essere inefficace allo scopo). Con la crisi dell’impero si affama il mondo intero, senza più nemmeno la distinzione tra paesi a capitalismo centrale e periferico. Il capolinea di un sistema sta nel micro come nel macro, nei diversi punti cardinali e vicino al punto di non ritorno.

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