Un indecoroso scalpitare di nuovi Fregoli improvvisatisi ministri, con sullo sfondo il circo mediatico, come sempre pronto ad accarezzare lo spettacolo che c’è e quando non c’è ad inventarlo, ha suggellato la cattura e l’arrivo in Italia di Cesare Battisti, latitante da 37 anni. Le scene dei Salvini e dei Buonafede non stupiscono, sebbene risultino ripugnanti per cinismo politicante.

 

Tentare d’intestarsi qualcosa della quale non hanno merito, trasformare in propaganda elettorale una operazione di polizia mentre il loro governo si caratterizza per il massimo livello di docilità verso la criminalità organizzata, è offensivo e paradossale per tutti prima che contrario alle norme del galateo istituzionale. Purtroppo, com’è noto, la cultura politica dei due può essere scritta agevolmente sul retro di un francobollo e il fatto che oggi si trovino nel ruolo di ministri della Repubblica, certifica più di qualunque analisi il livello comatoso della politica italiana.

 

 

Lo scalpo di un personaggio divenuto per qualche ora il nemico pubblico n. 1, trovatosi nelle vesti di inconsapevole arma di distrazione di massa per 48 ore, ha rappresentato la quint’essenza della trasmissione propagandistica tra il governo e i suoi elettori; ha solleticato le pance e le ugole degli odiatori compulsivi, di quei leoni da tastiera e da schede prepagate che auspicano crudeltà per tutti e perdono per gli amici. In fondo Battisti ha sostituito per qualche giorno gli immigrati, destinatari per definizione dell’odio ignorante e obiettivo prescelto per le frustrazioni verbose dei rabbiosi.

 

Lo show messo in atto ha poco a che vedere con Battisti in quanto ricercato. Il tentativo è piuttosto quello di utilizzare un’operazione di polizia internazionale per una campagna politica contro la sinistra che c’è, non quella che fu e della quale certo Battisti non rappresenta la parte né migliore né maggioritaria. In questo show persiste la ripetizione ossessiva dell’aggettivazione “comunista”, indicata come sinonimo di delinquente, infamia figlia della propaganda del berlusconismo dalla metà anni ’90 e che Salvini ripesca per i suoi squallidi interessi.

 

La polemica governativa sui latitanti ancora liberi scorre nei titoli di testa ma affoga in quelli di coda, perché i latitanti dell’estrema destra bombarola, colpevoli di stragi di innocenti ed omicidi mirati, sono esentati da questo computo d’ipotetica impunità.

 

Nella foga elettoralistica si incolpano i passati governi di centrosinistra di non essersi impegnati a sufficienza per la cattura dei latitanti all’estero, sorvolando allegramente sul fatto che Berlusconi, dei quaranta anni trascorsi dagli eventi, venti li ha passati al governo proprio con la Lega, che con lui ha governato ed ottenuto anche il dicastero della Giustizia con il dimenticato Castelli. Perché non ha ottenuto lui la consegna dei latitanti? Sarà che tutti erano distratti o che le fondate perplessità sul sistema giudiziario italiano non rendono semplice nessuna rogatoria? In fondo, la cosiddetta Dottrina Mitterrand che concedeva asilo a chi non si fosse macchiato di reati di sangue si fondava proprio su quest’ultimo aspetto.

 

Nessuno è mosso da simpatia verso l’ex appartenente ai PAC, una delle tante sigle con le quali una parte impazzita dell’antagonismo armato trovò nella esaltazione estrema e dottrinaria dell’autonomia del politico la ragione del suo agire. Non è questa la sede per un’analisi esaustiva del fenomeno, ma certo non fu un complotto, come ricostruzioni - queste sì complottistiche - ritengono. Nacque all’interno di un conflitto di classe violento, che vedeva lo stragismo di stato a manovalanza nera quale asse privilegiato della strategia della tensione. Fu frutto di un generale auto avvitamento e di suggestionanti quanto errate interpretazioni di teorie presenti nella storia del movimento comunista (il famoso album di famiglia, come lo definì Rossana Rossanda) ma infarcite di complottismo, revisionismo militarista e lettura infantile della complessità del sistema dominante, del quale divennero il miglior sostegno proprio nel momento della sua peggiore crisi.

 

La lotta armata, nata come errore politico, per alcuni degenerò in terrorismo vero e proprio causa lettura folle del contesto. Il nemico più che lo Stato divennero le organizzazioni della sinistra parlamentare quanto extraparlamentare e le loro articolazioni nei posti di lavoro e nelle università, le lotte di massa, l’ampliamento dell’influenza della sinistra nella società e nei corpi intermedi. Scelse una linea politica che, a conti fatti e sangue versato, spesso confondendo la giustizia con la vendetta e la vendetta con la rappresaglia, determinò prima lo sbigottimento, poi il disprezzo e quindi la distanza e il rifiuto di quei milioni di proletari che si volevano conquistare. Riuscì a trasformare l’idea di comunismo da simbolo di un sogno a sinonimo dell’orrore: questo fu l’obiettivo raggiunto, insieme al disarmo ideologico di due generazioni.

 

Ma se a quella stagione degenerata in follia pura non è facile affibbiare etichette, non si può trasformare in un fenomeno delinquenziale più di un decennio di battaglie politiche condotte da due generazioni che, con modi diversi e spesso antagonisti fra loro, tentarono di cambiare il mondo senza riuscirvi. Va detto perché l’obiettivo di questa campagna mediatica appare proprio questo: identificare i “comunisti” con il terrorismo, l’idea di una trasformazione in senso socialista della società come l’humus dal quale proviene la stagione dei cosiddetti “anni di piombo”.

 

Battisti non è santo di devozione alcuna; la sua personale vicenda interessa zero; è semmai quella processuale che risulta paradigmatica di una stagione emergenziale, visto che è stato condannato per i reati più odiosi benché le accuse siano state sostenute solo dalle rivelazioni dei pentiti.

 

La vicenda dei cosiddetti collaboratori di giustizia, quali che siano le fattispecie processuali, rimanda però ad una dialettica mai sopita tra verità storica e accertamento della verità processuale dei fatti. La legislazione emergenziale, che seppellì Beccaria ed ogni postulato giuridico pure previsto dalla democrazia liberale, ottenne l’obiettivo di rendere la difesa del sistema farsi essa stessa sistema.

 

Contò sulla cinetica adesione della magistratura italiana, che emise sentenze ad alzo zero, destinando a decenni di carcere anche chi non aveva mai sparato un colpo e assolvendo i peggiori assassini purché convenientemente pentiti. Su un altro fronte, le nostre zelanti inchieste e le aderenti toghe risultarono invece spesso incapaci di scoprire i mandanti delle stragi con le quali l’Italia ha scolpito nella pietra la sua obbedienza agli Stati Uniti - anche nella versione terroristica dell’anticomunismo a tutti i costi - e santificato nella vergogna un paese che perse ogni innocenza al suo primo gesto di ribellione.

 

A quaranta anni di distanza servirebbe tirare una riga, servirebbe l’analisi e la storicizzazione di un fenomeno pienamente iscritto nelle contraddizioni della società italiana, non l’utilizzo di alcuni scalpi a fini elettorali. Servirebbe un dibattito politico che chiudesse le ferite di tutti, carnefici, vittime e testimoni e che potesse prevedere la cancellazione dai codici di quanto rimasto della legislazione d’emergenza, perché in contrasto con il Diritto e con i diritti. Servirebbe, per questo, una classe dirigente. Proprio quella di cui, dalla fine della Prima Repubblica, l’Italia è orfana.

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