Più di 30mila? Meno di 20mila? Che fossero una platea da Woodstock o da riunione di condominio, gli italiani scesi in piazza sabato in favore del Tav erano senza dubbio molti meno di quelli che negli ultimi anni si sono sgolati contro la grande opera più inutile, costosa e distruttiva mai progettata in Italia dopo il Ponte sullo Stretto.

 

Ma il balletto dei numeri lascia il tempo che trova. Mai come stavolta, infatti, più che la quantità dei dimostranti conta la loro qualità. Difficile ricordare una manifestazione della società civile con una presenza di politici più ampia e più bipartisan: dal duo inseparabile piddini-forzisti, nostalgici del Patto del Nazareno, fino ai leghisti, passando per Fratelli d’Italia.

 

Ora, è piuttosto kafkiano che un partito di governo, quello di Matteo Salvini, scenda in piazza per avanzare una richiesta al governo medesimo. Il problema del Carroccio è che si ritrova a governare con il Movimento 5 Stelle, da sempre ostile alla Tav e già in subbuglio per essersi dovuto calare le braghe sul Tap (l’infrastruttura che porterà il gas azero in Europa approdando vicino Lecce e che, malgrado gli schiamazzi pentastellati, alla fine si farà).

 

La Torino-Lione rischia perciò di trasformarsi nella dimostrazione più plastica della schizofrenia su cui si fonda il governo gialloverde. Portatori di interessi contrapposti - Nord contro Sud, anziani contro giovani, imprenditori contro disoccupati - Lega e M5S non potranno mai trovare un punto di caduta sulla direzione da imprimere alla strategia per lo sviluppo infrastrutturale del Paese.

 

Su una materia del genere il compromesso è impossibile. Si può dare un colpo al cerchio e uno alla botte con abomini tipo il decreto sicurezza o il reddito di cittadinanza, su cui ciascuna delle due parti acconsente a chiudere un occhio per tenere in piedi la baracca governativa. Ma quando si arriva alla Tav non c’è artificio retorico di Rocco Casalino che tenga: la montagna o la buchi oppure no.

 

Del resto, questa contraddizione era chiara fin dai tempi del contratto di governo: «Con riguardo alla Linea ad Alta Velocità Torino-Lione - si legge nel Sacro Testo - ci impegniamo a ridiscuterne integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia». Cosa questo significhi non è ancora chiaro.

 

Di fatti, una parte del governo, la Lega, ha già scelto da che parte stare, mentre l’altra, il M5S, si nasconde dietro l’ennesima analisi del rapporto costi-benefici. Uno studio inutile ancor più dell’opera in oggetto - ce n’erano già un’infinità - e che si spiega solo in una logica politica. Non c’è dubbio infatti che l’analisi avrà esito negativo, offrendo al ministro ToninUlla una pezza d’appoggio con cui giustificare il Gran Rifiuto.

 

A quel punto, però, c’è il rischio che Salvini aumenti il pressing per un referendum su base nazionale, che non avrebbe ovviamente alcun senso pratico (andrebbe fatto, semmai, su base regionale) ma metterebbe spalle al muro i pentastellati, che si troverebbero di fronte al più scomodo dei bivi. Da una parte la possibilità di essere sconfessati dal Paese alle urne, dall’altra quella di passare per gli antidemocratici che rifiutano di ascoltare l’opinione dei cittadini. Proprio loro, gli auto-proclamati alfieri della democrazia diretta.

 

Come uscirne? Se non vuole rischiare di far cadere il governo, il Movimento 5 Stelle potrebbe optare per il male minore: una revisione del progetto Tav, con ridimensionamento di opera e costi. Su questo argomento, entro la fine della settimana, andrà in scena molto probabilmente l’ennesimo vertice di maggioranza a Palazzo Chigi. Ma c’è da giurare che non sarà risolutivo. Sul treno dei desideri la posta in gioco è troppo alta.

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