Nuove elezioni e nuove sconfitte per il PD, ormai è considerazione buona per ogni articolo post elezioni. Stavolta perdute Genova, L'Aquila, Verona, Pistoia, Cosenza, Catanzaro, Sesto San Giovanni. Nei comuni con oltre 15mila abitanti il centrodestra passa da 5 a 15, il centrosinistra da 14 a 4. Difficile immaginare una sconfitta più netta di così. Peggio di questo c’è solo il patetico tentativo di cercare di mitigarla con grafici a torta che sembrano procedere dalla concezione statistica dei famosi polli di Trilussa.

Il PD a guida Renzi non smette di pagare prezzi altissimi alla sua modificazione genetica e all'arroganza del suo capo, che ha ridotto un partito a locali comitati d’affari e la leadership in un esercizio odioso e noioso di ego smisurato e fuori luogo.

Dopo aver perso la maggior parte delle grandi città, da Roma a Torino, da Napoli a Venezia, ha ora cancellato dalla mappa nominalistica italiana le “zone rosse”, cumulando sconfitte nelle regioni che sin dal dopoguerra vedevano l'incontrastato dominio della sinistra. E’ riuscito persino a cancellare l’orgoglio della Genova che, dalla guerra partigiana ai tempi delle magliette a strisce e dei camalli, rappresentava la forza indiscutibile del PCI e dei suoi derivati; o di Sesto San Giovanni, culla della classe operaia del nord, mito della resistenza antifascista e, non per caso, denominata “la Stalingrado d’Italia”. In soli tre anni di renzismo sembrano diventati archeologia politica.

Se non ci si vuole arrampicare sugli specchi bisogna dire che dalle famose elezioni europee del 2014, quando il PD non ancora "renzizzato" prese il 41%, il PD a guida Renzi non ha più vinto nulla. Ogni tornata amministrativa, per non dire della batosta referendaria, è stata una disfatta. L’influenza complessiva che il PD esercitava sull’intero sistema delle Autonomie si è ridotta al minimo storico e la sua credibilità politica al lumicino.

Per essere ancora più chiari, si assiste allo sbriciolamento della lettura del quadro politico da parte di Renzi e dei suoi sottopancia. L’idea dalla quale traeva origine la strategia renziana (che serviva soprattutto a mascherare con una spruzzata di politica l’assalto al paese, alle sue casseforti bancarie e al polo finanziario pubblico da parte della banda toscana) vedeva infatti il PD che, spostandosi al centro, avrebbe recuperato il voto moderato dei berlusconiani, orfani dell’uscita di scena del Cavaliere; che attraverso la messa in scena di finte opposizioni a Bruxelles e falsi interventi sui privilegi e la spesa pubblica eccedente, avrebbe ridotto lo spazio di manovra di Grillo e Salvini. Dunque, con il Cavaliere fuori gioco sul medio termine, con Grillo e Salvini con margini più esigui, la nuova "balena bianca" del renzismo avrebbe solcato, vittoriosa, i mari della politica italiana.

Cos’è successo invece? Che il Cavaliere non è uscito di scena, ha sciolto il patto, è tornato e lo ha sconfitto; che Salvini, Meloni e Berlusconi insieme vincono e dunque sono orientati all’unità della destra a geometrie variabili, ovvero sul modello del 1994; che gli elettori che hanno abbandonato Grillo sono in parte tornati alla destra dalla quale provenivano (ma i 5 stelle sono tutt'altro che spacciati); che il PD che doveva cooptare tutti non solo non c'è riuscito ma è stato messo ricondotto a peso relativo; che il suo elettorato è in buona parte fuggito; che il partito si è spaccato con una uscita a sinistra assolutamente non trascurabile.

La vicenda politica italiana sembra quindi, come in un noioso gioco dell'oca, tornare alle caselle di sempre: dove c'é una destra che sa allearsi e che rappresenta una possibile maggioranza nel paese e un centrosinistra convinto della vecchia tesi che solo somigliandogli si può competere e tentare di vincere. Una sorta di processo osmotico destinato alla ricerca di un centro ormai luogo dell'indistinto, visibilmente privo di riferimenti che non siano la passione per il potere in quanto tale.

Ma se a prima vista sembra tutto uguale, la situazione è molto diversa dal passato. La drammatica crisi del lavoro e la disgregazione del tessuto sociale, il venir meno di un codice condiviso tra rappresentanti e rappresentati e l'assenza delle comunità politiche che costruivano consenso e partecipazione, hanno dato spazio ad una idea di rottura tout-court che prevale su quella della ragionevolezza e ad un rifiuto generale dell'establishment, che del resto continua a presentarsi come servo dei primi e padrone degli ultimi.

Proprio su quest'ultimo aspetto si misura "l'effetto Renzi" sull’elettorato. Siamo in presenza di un rigetto evidente, con pochi precedenti storici e che non può essere in nessun modo modificato, nemmeno con eventuali – quanto improbabili – modifiche alla linea politica del PD.

Per dirla in termini di marketing, oltre ad aver trasformato il PD in un un brand negativo e perdente, Renzi stesso è riuscito in tre anni a passare da speranza (per alcuni) a fastidio epidermico per (quasi) tutti. Evoca rabbia, fastidio, indignazione: allearsi con lui non è consigliabile, si verrebbe cooptati nel sentiment negativo a livello popolare.

Il renzismo appare come la peggior sciagura numerica e politica della storia del centrosinistra. Di più, la sua sopravvivenza è ostile all'idea di centrosinistra. Il PD appare oggi un progetto sbagliato in mano ad un capo sbagliato. Il suo bilancio di tre anni di comando vede l'uccisione dell'identità di sinistra e la contestuale rinascita di una destra che era agonizzante. Il rottamatore dev'essere rottamato. Magari cominciando a riostruire la sinistra.

 

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