Matteo Renzi ci ha preso gusto. Dopo aver fatto cadere il governo Letta e il proprio, da qualche mese sta cercando di picconare anche l’esecutivo di Gentiloni. Sarebbe il terzo governo Pd a cedere sotto i colpi del segretario del Pd.



La settimana scorsa da Alternativa Popolare sono arrivate testimonianze inquietanti. Avvelenati con Renzi per lo sbarramento al 5% della nuova legge elettorale che li terrà quasi certamente fuori dal Parlamento, gli alfaniani hanno rivelato che dallo scorso inverno il buon Matteo ha chiesto loro più volte di defenestrare Gentiloni, promettendo in cambio una legge elettorale favorevole ai partitini. E dal rifiuto di Ap sarebbe scaturita la rappresaglia di questo modello pseudo-tedesco, così punitivo nei confronti delle formazioni minori.

Non ci sono prove che tutto questo sia accaduto davvero e, naturalmente, dal Pd hanno replicato con le solite smentite e i soliti arroganti sfottò da primi della classe. Agli occhi di un osservatore esterno, tuttavia, la storia raccontata da Ap sembra più che verosimile.

Il motivo? Semplice: è terribilmente coerente con la prassi politica di Matteo Renzi, volta esclusivamente alla creazione e al mantenimento di un sistema di potere personale. A dimostrare nel migliore dei modi questo assunto è proprio il confronto con la caduta dei due governi passati, episodi che pure sono molto differenti fra loro.

In particolare, il vero caso di scuola è il tradimento nei confronti di Enrico Letta. Renzi si decise a piantare il coltello nella schiena del compagno di partito – “Stai sereno” gli diceva, sempre con arroganza – per una serie di ragioni, nessuna delle quali aveva qualcosa a che vedere con gli interessi del Paese.

All’epoca Renzi era interessato a incassare il dividendo delle imminenti elezioni europee (a cui prese quel famoso 40% che aggravò sensibilmente il suo delirio di onnipotenza) e ad acchiappare il timone poco prima che arrivasse il turno dell’Italia alla presidenza dell’Unione europea. Ma soprattutto Renzi scelse di andare al governo in quel momento perché era periodo di nomine pubbliche e la cosa che gli stava più a cuore era piazzare manager a lui favorevoli nelle principali caselle industriali ed economiche d’Italia. Il giochetto gli riuscì perfettamente, e fra gli oltre 100 nominati rientrarono anche i vertici di colossi come Eni, Enel e Poste.

In quel momento è iniziata davvero la stagione di Renzi ai vertici del potere italiano. All’improvviso non c’era manager o aspirante tale che non si professasse moderatamente di centrosinistra, appassionato di riforme (in quanto tali, perché ragionare sul “quali” e sul “come” è sempre sembrato a tutti un esercizio sterile) e incontrollabilmente eccitato all’idea di prendere a cazzotti la Costituzione.

La bastonata del 4 dicembre è stata vissuta da Renzi come una battuta d’arresto incomprensibile e temporanea. Incurante di tutte le promesse ripetute fino alla noia in campagna elettorale (“se perdo smetto di fare politica”), ha creato un governo fantoccio, replica sbiadita del suo, assicurandosi di poterlo controllare da fuori. Nel frattempo, ha iniziato la corsa per recuperare le cariche perdute nel più breve tempo possibile.

Fin qui ha riacciuffato solo la segreteria del Pd, ben poca cosa. Per battere Orlando ed Emiliano, con tutto il rispetto, non serviva Obama. Adesso viene la parte difficile: tornare a Palazzo Chigi. È una vera ossessione, perché il potere non aspetta. Ormai Renzi è fuori dal cono di luce da troppo tempo e se non si sbriga a recuperare slancio rischia di non riuscire a tornare sul cavallo.

In questo senso, votare in autunno è fondamentale. Non solo perché è la prima finestra utile, ma soprattutto perché gli consentirebbe di mettere le mani sulla prossima legge di Bilancio. Una manovra che sarà complicatissima, un vero incubo per il Tesoro. Ma dalla quale Renzi può comunque trovare il modo di fare uscire le misure giuste per recuperare il consenso che più gli interessa, quello dei suoi amici. Anche questo è “fare rete”, no?

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