di Domenico Melidoro

Una tesi abbastanza diffusa vuole che le maggiori minacce per la tenuta del Governo Prodi provengano dalla cosiddetta sinistra radicale (o, se si preferisce, antagonista) e dalle sue aspirazioni massimaliste inconciliabili con lo spirito riformista che dovrebbe ispirare l’operato dell’Esecutivo. Le cronache di sabato 4 novembre hanno registrato una manifestazione di lavoratori precari a Roma alla quale hanno preso parte esponenti del governo in carica e leaders di alcuni partiti della maggioranza (PRC, Verdi e PdCI). Secondo molti osservatori questa sarebbe l’ennesima dimostrazione della presenza nel governo di una sinistra estrema che protesta contro il Governo di cui fa parte e non permette la realizzazione delle condizioni necessarie a una politica di reale innovazione.
Eppure, tensioni e minacce per la stabilità dell’Unione arrivano anche dalla componente riformista della coalizione, vale a dire quella che, principalmente attraverso la fusione di DS e Margherita, dovrebbe confluire nel Partito Democratico. Perfino Prodi, il quale ha sempre visto nella costituzione del Partito Democratico la garanzia per la stabilità della maggioranza, ora sembra procedere con cautela e ritenere prioritaria la tenuta della maggioranza rispetto alla costituzione del nuovo soggetto politico riformista. Alla diatriba sulla collocazione internazionale (non è per nulla risolta, né si intravede una probabile soluzione nell’immediato, la questione se aderire o meno al PSE) si aggiunge la competizione per la futura leadership del partito e per chi debba rappresentare l’autentico alfiere dello spirito riformista.

Francesco Rutelli e i suoi più fedeli collaboratori hanno di recente diffuso un manifesto sulle liberalizzazioni. È evidente che il leader della Margherita non intende lasciar campo libero in tema di libertà economiche ai DS, e in particolare a Bersani, che della politica delle liberalizzazioni appare tra i maggiori fautori. Il Ministro diessino non ha risposto polemicamente all’iniziativa politica di Rutelli e ha negato qualsiasi competizione “tra riformisti e radicali o tra gli stessi riformisti” (l’Unità, 10 novembre 2006), dicendosi favorevole a che ognuno porti il proprio contributo alla caratterizzazione in senso riformistico delle politiche del Governo.

La priorità è, secondo Bersani, quella di ancorare le riforme al consenso popolare: l’idea guida dovrebbe essere quella per cui “non si possono fare riforme senza popolo” (l’Unità, 10 novembre 2006). E infatti, la mancanza di sostegno popolare è stato uno dei punti di debolezza del Governo Prodi nei primi mesi. Ciò non dovrebbe essere spiegato, come fanno in molti, con un troppo semplicistico ricorso a errori nella strategia comunicativa. È invece molto probabile che, come ci invita a fare Gloria Buffo, la mancanza di sostegno popolare si possa spiegare col fatto che “sono le riforme invocate da Fassino e Rutelli ad essere «deboli», ovvero non in grado di trascinare una coalizione per non dire un intero Paese” (l’Unità, 8 novembre 2006). I sacrifici richiesti da una politica autenticamente riformatrice diventano accettabili quando se ne percepisce l’equità e quando è chiaro che la sopportazione di tali sacrifici è richiesta per ottenere un vantaggio collettivo, in particolare per le giovani generazioni. Tutto ciò non sempre si verifica nel caso delle riforme realizzate (o auspicate) dal Governo e in particolare nei propositi dei più accesi fautori del PD. Questi ultimi non assumono la precarietà del lavoro come il principale problema del Paese e anzi, come ha scritto Gloria Buffo, “non perdono occasione per ricordare che la legge 30 non è tutta da buttare, che la flessibilità è indispensabile” (l’Unità, 8 novembre 2006).

La tendenza al moderatismo sta allontanando sempre più dalla prospettiva del PD la Sinistra DS e la componente laburista che fa capo a Valdo Spini. Sono ormai in molti a rifiutare l’allontanamento dall’alveo della tradizione socialista in vista di un ancora non ben precisato approdo. Questo non fa che indebolire la Quercia in vista del Congresso della primavera del 2007: alla mozione della Sinistra di Mussi e Salvi (e dei laburisti di Spini) e di quella guidata da Angius e Caldarola (che auspicano al massimo un processo federativo tra DS e Margherita) si potrebbe aggiungere quella presentata (o “benedetta”) da Walter Veltroni, stando a quello che scrive Fabio Martini su la Stampa del 10 novembre. Il Sindaco di Roma giudica negativamente il processo di costituzione del PD: si tratterebbe di una fusione fredda tra gli apparati dirigenti dei DS e della Margherita, piuttosto che di un ampio processo politico-culturale capace di coinvolgere vasti strati di popolazione non direttamente assimilabile a un partito o all’altro. A ciò bisogna aggiungere che la futura leadership potrebbe essere tolta di mano a Veltroni per essere affidata ad Anna Finocchiaro in tandem con Dario Franceschini (almeno così prevederebbe un’intesa tra l’onnipresente D’Alema e Marini).

Qualcuno potrà dire che siamo nell’ambito delle supposizioni. Quello che è incontestabile è che la formazione del PD rischia di diventare, contrariamente alle aspettative, un fattore di destabilizzazione per l’Unione e per il Governo di Prodi, soprattutto in questa fase estremamente delicata. L’approvazione della Finanziaria, e la necessità di dare concrete risposte ai Ministri che lamentano eccessivi tagli nella spesa pubblica, esigerebbe maggiore compattezza, soprattutto da parte di coloro che pretendono di rappresentare l’asse portante della coalizione.








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