di Carlo Musilli

Che l'Italia abbia venduto ai ribelli libici le armi per la rivoluzione è probabilmente una calunnia del rais Gheddafi. Che l'Italia abbia venduto al rais Gheddafi molte delle armi con cui l'esercito sta massacrando i ribelli libici, invece, è un dato di fatto. Veicoli terrestri e aeromobili, siluri, missili, razzi e bombe di ogni sorta: per Tripoli il nostro Paese è come un Babbo Natale con la sacca piena di bei giocattoli. Nessuno in Europa ha rifornito l'arsenale del regime più di noi.

Soltanto nel biennio 2008-2009, stando ai dati pubblicati dalla Ong Unimondo, le ditte Italiane hanno spedito in Libia armamenti per oltre 205 milioni di euro. Una cifra astronomica che ci fa salire spediti sul gradino più alto del podio. Al secondo posto la Francia, superata per distacco, con le sue misere esportazioni da 143 milioni di euro.

Complessivamente, la Libia è l'undicesimo miglior acquirente di armi italiane e riceve circa il 2% delle nostre esportazioni. Eppure, l'armeria italiana non è sempre stata così munifica con i suoi figli nordafricani. La vera cuccagna è iniziata solo nel 2004, quando l'Unione Europea ha revocato l'embargo totale sulla Libia. Ancora nel 2006, il giro d'affari non arrivava ai 15 milioni di euro, ma già l'anno successivo i conti sono schizzati fino a sfiorare i 57 milioni.

Dopo di che a Berlusconi e Gheddafi è parso opportuno unire i due paesi in regolare matrimonio con il "Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione fra Italia e Libia", firmato a Bengasi nell'agosto 2008. All'articolo 20, il documento che sancisce la nostra "amicizia" col regime di Tripoli, prevede "un forte ed ampio partenariato industriale nel settore della Difesa e delle industrie militari" e perfino un'ampia "collaborazione nel settore della Difesa tra le rispettive Forze Armate".  Arriviamo così ad esportare armamenti per quasi 112 milioni di euro del 2009. In tre anni, un incremento del 746%.

Tanto calorose sono state le nostre dimostrazioni di fratellanza, che non poteva mancare una contropartita. Abbiamo ottenuto materie prime e un occhio di riguardo per le nostre maggiori imprese attive in Libia: Eni, Anas, Impregilo e, soprattutto, Finmeccanica. Quest'ultima è una holding con 328 società controllate, specializzata prevalentemente nel settore della difesa e della tecnologia aerospaziale. Quanto alla proprietà, il 32,5% di Finmeccanica è del ministero dell'Economia.

Il secondo azionista, guarda un po', è la Lybian Investment Authority, che ha in tasca il 2,01%. Si tratta di un fondo sovrano, cioè un veicolo d’investimento pubblico, per quanto la definizione abbia senso in un regime dittatoriale.

Il laccio che lega la realtà italiana a quella libica è diventato indissolubile nel luglio 2009, quando Finmeccanica e Lybian Investment Authority hanno creato una joint-venture da 270 milioni di euro per gestire gli investimenti industriali e commerciali in Libia e in altri paesi africani.

Tutto questo la dice lunga sul comportamento del nostro ministro degli Esteri, Franco Frattini. Mentre i suoi colleghi europei interrompevano i rifornimenti di armi a Gheddafi, lui è rimasto in silenzio. E quando ha aperto bocca lo ha fatto per dire ai microfoni dei giornalisti europei frasi come questa: "Non dobbiamo dare l'impressione sbagliata di voler interferire, di voler esportare la nostra democrazia.

Dobbiamo aiutare, dobbiamo sostenere la riconciliazione pacifica: questa è la strada". Evidentemente qualcuno a Bruxelles deve avergli fatto presente che al momento in Libia c'è la guerra civile, perché, subito dopo la riunione comunitaria di alcuni giorni fa, Frattini si è convinto ad essere un tantino più incisivo, condannando "la repressione in corso contro i manifestanti" e chiedendo “l'immediata fine dell'uso della forza".

I motivi d’imbarazzo non sono mancati neanche durante il vertice. L'Italia ha infatti appoggiato la proposta del ministro maltese di inserire nel comunicato Ue una frase per riconoscere "i diritti sovrani della Libia e la sua integrità territoriale". Fortunatamente, i rappresentanti di altri paesi hanno intuito che un'affermazione del genere poteva suonare come una legittimazione della mattanza in corso e li hanno convinti a lasciar perdere. Ma c'è un ultimo dettaglio da notare. Nella speciale classifica degli esportatori di armi in Libia, che ci vede gloriosamente in testa, chi troviamo al terzo posto? Proprio Malta. Ma guarda..

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