di Mariavittoria Orsolato


Doveva essere il provvedimento che avrebbe rimesso in moto l’esangue economia nostrana, “Un giro di affari da 50-60 miliardi di euro” garantiva il nostro presidente palazzinaro, ma il famigerato Piano Casa pare non s’abbia da fare, almeno così com’è. Il pacchetto di leggi sull’edilizia nasceva già in circostanze ambigue, emanato con una circolare della Presidenza del Consiglio dei ministri il 10 marzo, è stato da subito additato come incostituzionale per le sue ben poco velate pretese di cementificazione selvaggia: si prevedevano possibilità di ampliamenti del 20% sulle abitazioni private mono o bifamiliari e del 30% nel caso in cui l’immobile fosse abbattuto e ricostruito, il tutto con la sola approvazione del progettista. Niente più permessi, né tutele sulla sicurezza delle persone e dell’ambiente: lo zampino di un reminescente Berlusconi – che tenta di salvare il paese usando le stesse tattiche con cui si è personalmente arricchito tra gli anni ‘60 e ’70 – pare quasi scontato ma, nonostante il continuo pressing sull’urgenza del provvedimento, a Berlusconi è bastato un giro di alta velocità per smentire categoricamente la paternità del Piano Casa "In effetti – spiega un premier fiero del suo nuovo cappello da ferroviere – il disegno che è circolato non è quello a cui io avevo già lavorato”.
La retromarcia di Berlusconi non è stata sicuramente dovuta ad una folgorazione sulla via di Roma ma viene piuttosto dal muro eretto dalle Regioni in modo quasi compatto, eccetto Veneto, Abruzzo, Sardegna, Molise e Friuli tutte le altre Regioni si sono fermamente opposte al disegno di legge presentato dall’esecutivo: troppe le differenze normative tra le Regioni e troppi i casi in cui il decreto avrebbe asfissiato le competenze dei Comuni.

Tutta la giornata di ieri è stata dedicata ad un confronto tra il cavaliere, il presidente della Conferenza delle Regioni Vasco Errani – governatore dell’Emilia Romagna in quota Pd – e il ministro per i rapporti Regionali Raffaele Fitto, sul piatto le rispettive competenze in materia di edilizia ma anche il rischio che un aumento delle cubature generalizzato e senza autorizzazione, o il silenzio-assenso entro trenta giorni imposto alle sovrintendenze, potrebbe innescare una quantità enorme di contenziosi civili e amministrativi. Se a questo aggiungiamo il malcontento di una Lega che da sempre gioca (vincendo) sulle prerogative territoriali e il diretto interessamento di un Napolitano i cui dubbi cominciano a pesare, era inevitabile che il testo del decreto presentato sarebbe stato rimesso nel cassetto.

Accantonata quindi la possibilità che si procedesse tramite decreto legge, ora l’intenzione è quella di stendere un documento che riesca a metter d’accordo tutte le venti Regioni entro martedì, giorno a cui è slittata la discussione del testo in Parlamento: l’argomento più delicato è quello riguardante l’aumento della cubatura solo per le abitazioni mono o bifamiliari – manovra che inevitabilmente richiama alla mente il villone –, ma una soluzione potrebbe venire dal modello già sperimentato in alcune zone del nord che consentono l’ampliamento anche agli appartamenti che decidono di mettere a norma gli impianti o di ottenere una certificazione ecocompatibile dell’intero stabile.

Stupisce però che in tutta questa bagarre ci si sia dimenticati di un particolare non poco importante, le persone. La crisi economica sta mietendo posti di lavoro e cancellando piccole realtà imprenditoriali, il potere d’acquisto di un fortunato salariato permette a malapena di raggiungere la fine del mese: in questo quadro desolante, giocare la carta dell’edilizia privata ha ancora un senso?
Dalle dichiarazioni dell’esecutivo e da come Berlusconi pesta i piedi pare inevitabile, Brunetta propone addirittura di vendere le case popolari a prezzo agevolato agli attuali inquilini: proposta ad effetto, ma che non tiene conto del piccolo particolare che vuole le case popolari come proprietà dei Comuni e non del governo, senza contare che ad oggi le liste d’attesa per l’assegnazione di un alloggio sono chilometriche e che gli assegnatari appartengono ad una fascia di reddito talmente bassa da non potersi proprio permettere le rate di un mutuo, per quanto agevolato.

Un vero Piano casa dovrebbe tenere a mente che in Italia la percentuale di alloggi popolari sfitti è spaventosamente alta rispetto alle richieste di assegnazione, dovrebbe rendersi conto che i canoni d’affitto sono aumentati – secondo le associazioni degli inquilini – del 75% in 7 anni e dovrebbe soprattutto realizzare che ad oggi i prezzi delle case sono indecentemente alti.

La casa è un diritto fondamentale e nessuna parte politica ha il coraggio di metterlo pubblicamente in dubbio, ma puntare sull’edilizia privata e sull’ingrandimento di case già esistenti pare assolutamente anacronistico ed inefficace, lo spettro della speculazione grava poi inevitabilmente sulla questione.

La partita tra le autonomie locali e la grande macchina statale della libertà è quindi ancora apertissima: le Regioni hanno una settimana di tempo per presentare un’alternativa valida alla proposta del governo, ma pare che già venerdì il Consiglio dei Ministri darà il via ad un provvedimento con effetti immediati. Si sa, a Padron ‘Silvio i “no” non sono mai piaciuti.

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