di Fabrizio Casari

E’ finita ieri l’avventura di Veltroni alla guida del PD. L’uomo che sogna l’America, vorrebbe vivere in Africa e fa politica in Italia, ha rimesso il suo mandato ad un partito che non è partito mai. Le dimissioni sono state presentate adducendo la volontà di non prestarsi al gioco al massacro delle componenti interne, unico sport nel quale il PD primeggia, ma certo è che il bilancio dei mesi di segreteria Veltroni ha rappresentato un record assoluto di sconfittismo politico nella storia repubblicana. L’ex segretario ha collezionato alcune perle che difficilmente saranno eguagliate da chiunque decidesse di lanciarsi nell’agone politico: dapprima ha contribuito a disarcionare Prodi, indicando un radicale cambio di rotta nei rapporti tra i partiti che sostenevano il governo del professore; quindi, per correre verso la segreteria del PD si è dimesso da sindaco di Roma, che è stata consegnata ad Alemanno. Poi ha cancellato la sinistra dal Parlamento italiano, consegnato il governo alla destra più reazionaria d’Europa e perso anche le amministrative. Poteva bastare? No che non bastava. Da quel momento dà il via all’opposizione più inutile d’Europa, che firma accordi sulle leggi elettorali utili solo a Berlusconi e al suo progetto autoritario e a cancellare la sinistra italiana anche dall’Europa; balbetta cose incomprensibili sulle politiche sociali e risulta inerte sulle proposte economiche per affrontare la crisi. Non dice parole ferme sui diritti civili e permette di prosperare alle quinte colonne clericali del suo partito; riduce una storia politica d’insediamento territoriale a partito liquido, getta nel caos la Campania, perde l’Abruzzo e la Sardegna.

Le sue dimissioni dimostrano, almeno, la consapevolezza dell'inadeguatezza. Non fosse esistito, Berlusconi avrebbe dovuto inventarlo. Torna alla mente la fulminante battuta di Parisi, che commentando l’entusiasmo di Veltroni per la vittoria di Obama, disse: “In Oregon abbiamo stravinto, è in Abruzzo che abbiamo dei problemi”…Sul piano dell’impostazione politica della creatura, nata per annunciare un principe, presto divenuto rospo, due gli errori più gravi, uno di cultura politica ed uno di assetto organizzativo. Il primo vede nel bipolarismo estremo l’assetto più congeniale alla crisi italiana, con un partito che, lungi dal rappresentare una alternativa di metodo e contenuto al pensiero dominante, ne accarezza prudentemente le forme e l’agire politico. Il secondo è quello che delinea il modello organizzativo lontano dalla cultura dell’organizzazione di un partito come un corpo sociale, capace di essere intellettuale collettivo e forza territoriale e ne individua il carattere di fondo in un sostanziale comitato elettorale.

Sarebbe ingeneroso affermare oggi che la fusione fredda, divenuta ormai gelida, sia stata opera solo di Veltroni; ma sarebbe ipocrita negare che proprio lui ne ha incarnato il senso compiuto, ne è stato l’interprete più attento, salvo divenirne ultimamente una sorta di guardiano del faro. Anche sotto il profilo del “dialogo” con il governo, invece di mettere in difficoltà l’esecutivo ha consentito a Berlusconi di sommare trionfi su trionfi, che occultano le pur presenti contraddizioni all’interno del suo schieramento e la sua incapacità cronica a governare.

Dalle vicende di questi mesi esce un verdetto che indica nel PD non solo un progetto non in grado di puntare con successo al governo del Paese, ma anche l’inadeguatezza a tenere le posizioni ereditate sul piano dei rapporti di forza politici. Il PD è stato - e resta - un’operazione politica a freddo, sbagliata in forma e sostanza. Nato per seppellire identità culturali e politiche e, con esse, un progetto di società, il suo obiettivo primario - quello di costituire un blocco neocentrista che possa occupare ogni possibile spazio politico e determinare, con ciò, l’imprescindibilità del PD per qualunque composizione di maggioranze governative è già - forse per fortuna - miseramente naufragato.

Naufragato sotto i colpi del vuoto progettuale che l’assemblaggio del vecchio ceto politico con nuove parole ha rappresentato agli occhi dell’elettorato democratico e di sinistra, che ha invece visto nell’operazione politicista il solo assemblaggio di due gruppi dirigenti precedentemente autonomi; niente di più e niente di meno di quello che c’era da vedere.

Nel prossimo futuro ci sono le elezioni europee e le amministrative in città-simbolo per la storia della sinistra come Firenze e Bologna. Un incubo. E’ anche possibile che le dimissioni di Veltroni aprano una fase di ripensamento dell’operazione politica, che si accelerino i processi di disimpegno che fanno capo a Rutelli e che vedono l’ala clericale del PD prendere definitivamente il largo verso più comode e redditizie sponde; orfani del grande centro e allergici all’opposizione a vita, i democristiani di vecchio conio e i nuovi chierichetti piombati come avvoltoi nella politica italiana sapranno contarsi in altri luoghi.

Ma quello che davvero conta è ciò che sceglieranno gli ex-Ds; la candidatura di Bersani non verrebbe comunque accettata dagli ex-dc e comunque, Bersani o chiunque altro al posto di Veltroni poco cambia se s’intende proseguire con l’accanimento terapeutico. Congresso o non congresso, si deve staccare la spina, rompere il giocattolo elettrico che è ormai in corto circuito. Recuperare e ricostruire il partito distrutto, riprendere identità e progetto politico, ripartire da una lettura diversa della società italiana. Tutto quello, cioè, che è mancato al PD. A fronte di un vento di destra che soffierà per diversi anni, servono idee forti e interpretazione dei fenomeni strutturali e contestuali, capacità di “visione” e progetti ideali di trasformazione attorno ai quali costruire rappresentanza e leadership politica. Prima che sia troppo tardi.

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