di Saverio Monno

Tempi duri per il Paese. Occorre tirare la cinghia. Siamo in piena recessione ed alle prese con la più forte e lunga crisi economica che si ricordi. I margini di ricchezza si sono fortemente ridotti. Cosa fa il governo liberale in una congiuntura di questo tipo? Taglia la spesa pubblica, finge di ridurre le imposte ed abbandona ciascuno a se stesso. In questi primi mesi di attività, il governo ci ha dato solo un assaggio di tutto ciò, il “bello” deve ancora venire. Ci siamo liberati dell’ICI sulla prima casa - che a quanto pare era la causa principale dei dissesti economici familiari - ciononostante, se prima non si arrivava alla fine del mese, ora non si passa la prima settimana. Poi sono arrivati i tagli alla spesa pubblica. Erano vent’anni che cercavano di farci entrare nella zucca che “tutto ciò che è pubblico è spreco”, quest’estate si è passati ai fatti. “È finita la ricreazione!” come diceva qualcuno. Tagli, dunque. Dalla Scuola all’Università, dalla Giustizia alla Pubblica Amministrazione, è una caccia alle streghe, non si salva nessuno. Un’operazione che, nel solco del liberismo più scellerato, più cupo, più feroce, sembra presagire una “fuga dello Stato dallo Stato”. In una congiuntura politica ed economica così propizia, il nostro Presidente del Consiglio non poteva non cogliere la palla al balzo per togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Ecco quindi spuntare, nell’ambito di una legge, la 133 del 6 agosto 2008 (ex decreto Tremonti), l’idea di semplificazione e riordino delle procedure di erogazione dei contributi all’editoria. Un provvedimento all’apparenza innocuo, ma che di fatto azzera i contributi diretti all’editoria e condanna alla forca 27 testate giornalistiche. I giornali non padronali e quelli di partito, sono questi i bersagli che il governo intende colpire.

L’obiettivo è semplice: eliminare il dissenso. È necessario impedire che vi siano voci critiche che possano continuare a minare quell’oligopolio mediatico, guidato dalle aziende del Presidente del Consiglio, che da vent’anni opprime il paese. Di qui l’azzeramento dei contributi soggettivi all’editoria (ex l. 250 del 7 Luglio 1990), attraverso una manovra, da 387 milioni di euro, che scansa “misteriosamente” i maggiori percettori di contributi pubblici (Mondadori, Il Sole-24 Ore, RCS) e dirige nelle sacche dei soliti noti quella minima parte delle risorse pubblicitarie, che a quelle tasche continuava a sfuggire.

Tra le testate giornalistiche nel mirino del governo spicca il Manifesto. In 37 anni di vita, il quotidiano, fondato da Luigi Pintor, ne ha viste di crisi. Citando uno dei suoi storici giornalisti verrebbe da dire che “è come quelle persone sempre un po’ malaticce che però, poi, durano nel tempo”. Ma questa volta il rischio di chiudere i battenti è spaventosamente tangibile. A darcene la conferma è il direttore del quotidiano, Gabriele Polo. L’abbiamo incontrato qualche giorno fa a Ponte San Giovanni, alle porte di Perugia, nel corso di una delle numerosissime iniziative, in sostegno della testata. “Il giornale è nato con la sottoscrizione di 50milioni di lire ed è andato avanti sui debiti - esordisce Polo - la storia di questo Paese, dell’Europa, dell’Occidente, ci dice che questo percorso non è più possibile”. Non è possibile sperare di continuare ad essere in edicola senza il becco di un quattrino.

“Siamo alle prese, oltre che con le banche – continua - con tanti problemi tecnici, una distribuzione difficile, i conti che non vanno oltre un certo livello”. Problemi strutturali che suggeriscono, in modo inequivocabile, che “il giornale non riesce a stare in piedi da solo”. A Roma, in via Bargoni, nuova residenza della cooperativa dopo l’addio alla sede storica in via Tomacelli, si spremono le meningi. Con 4 milioni di euro da raccogliere entro la fine di dicembre e gli stipendi fermi a giugno, è comprensibile che ci si dia da fare per provare a far quadrare i conti. “Abbiamo pensato di tagliare delle pagine - confessa il direttore - ma uscire con un giornale più leggero potrebbe rivelarsi una scelta un po’ pericolosa. Pensiamo però che sarebbe altrettanto pericoloso aumentare il prezzo del giornale”. Nonostante il problema economico però, non c’è alcuna voglia di trasformare la faccenda in una questione occupazionale. “Siamo come una famiglia - dichiara - anche nel momento in cui vi fosse l’esigenza di proporre un quotidiano più “povero”, in redazione non cambierebbe nulla. Abbiamo da rinnovare il nostro spazio sul web e quindi, se ve ne sarà la necessità, sposteremmo quelle energie non impegnate con il giornale sul sito”.

Per il momento “non bisogna pensare ad altro che pagare la correntezza”, dice. “I soldi delle sottoscrizioni non bastano, soprattutto di fronte ad un debito consolidato così imponente e alle banche che poppano interessi in maniera così pesante. Il finanziamento pubblico, nel nostro caso serviva a questo, a pagare debiti ed interessi passivi. La nostra situazione la conoscono tutti, non abbiamo un editore, non c’è altra possibilità di ripianare il debito se non attraverso le vendite del giornale e dei nostri prodotti. Siamo solo noi e i nostri lettori”. Un appoggio ed uno stimolo costante, soprattutto perché arriva da gente, che l’idea di non trovare il “proprio” giornale in edicola, non vuole nemmeno prenderla in considerazione.

Una risorsa non da poco, considerato che il quotidiano registra ogni giorno una media di vendite vicina alle 26 mila copie (23 mila in edicola, 2 mila copie per l’abbonamento cartaceo, 1500 per quello on line), strategica se consideriamo che nei momenti di difficoltà, ha sempre sostenuto il giornale con tutte le forze. Pensiamo alla passata campagna di sottoscrizione (2006 - Salviamo il mostro, sostieni un bene comune) che ha permesso di portare alla causa della cooperativa oltre 2 milioni di euro. “Troveremo una soluzione -rassicura Gabriele Polo - e non perché il giornale sia un patrimonio astratto, ma perché è fatto di donne e uomini che hanno alle spalle una storia straordinaria, delle persone che hanno una generosità grandissima”.

Al momento, “Fateci Uscire”, la nuova campagna di sottoscrizione lanciata dal giornale, “ci ha permesso -continua il direttore - di raccogliere circa 900 mila euro: senza quei soldi avremmo chiuso bottega da un pezzo”. C’è da scommetterci, dunque, il Manifesto non mollerà, ma il colpo di scure inflittogli da Tremonti, pone tutti gli “addetti ai lavori” in serie difficoltà, soprattutto dopo aver visto sfumare la possibilità di un congelamento dei tagli, così come era stato ventilato nei giorni passati, anche attraverso alcuni emendamenti, poi ritirati dalla maggioranza. Le numerose pressioni di MEDIACOOP (l’associazione nazionale delle cooperative giornalistiche, editoriali e della comunicazione), alleato importante per il manifesto, in questa battaglia, non è riuscita, almeno finora, a produrre uno sblocco della situazione.

Al momento, dunque, l’unica alternativa percorribile resta il giornale. Bisogna continuare a lavorare sodo, in attesa di comprendere quale soluzione potrà essere messa in campo. “Vedremo poi - conclude il direttore - se si tratterà di una soluzione di basso profilo o di una soluzione dignitosa come quella che continueremo a cercare, con il quotidiano che facciamo e tutte le altre iniziative che normalmente portiamo avanti”.

Luigi Pintor diceva che “il Manifesto è una formula originale della politica”, un giornale politico, che cerca di fare un’informazione alternativa, diversa dagli altri, che allo stesso tempo cerca di portare avanti delle iniziative, politiche o culturali che siano. Qualcuno potrebbe non condividerne i contenuti, qualcun altro potrebbe obiettare di non approvarne il punto di vista, è lecito. Che alla condanna politica però, non segua quella economica. È giusto pensare di operare dei tagli che preservino le casse dello Stato dagli sprechi, ma nel momento in cui l’operazione non colpisce chi ha spalle per sopportare il colpo, ed anzi, rivela il chiaro tentativo di sabotare chi non si adegua al vento; quando, dunque, il fine politico nasconde null’altro che un bieco interesse di parte, anche solo immaginare di non reagire vuol dire arrendersi al regime. Arrendersi ora, poi, significherebbe accettare l’eutanasia dell’informazione.

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