di Mariavittoria Orsolato

Il nostro premier come al solito c’ha provato, ma la compostezza e l’intelligenza del movimento spontaneo creatosi attorno al dissenso sulla riforma Gelmini, sono stati capaci di fare quello che la sinistra e l’opposizione tutta non sono riusciti a fare in 15 anni. Sono solo di pochi giorni fa le parole con cui Silvio Berlusconi inviava un “avviso ai naviganti” e si preparava a far comunella con il superministro Maroni per inviare i celerini nelle scuole e nelle università occupate. Pronta, il giorno dopo è arrivata l’ormai naturale smentita, ma il movimento non ha fatto una piega: come sordo al canto della sirena di Arcore, ha preferito tralasciare la provocazione e continuare a concentrarsi sugli obiettivi che da qui a novembre dovrebbero dare una svolta all’impasse della scuola pubblica italiana. Un atteggiamento tutt’altro che radicale, in cui convogliano gli umori e le preoccupazioni di diverse anime, sia politiche che sociali. A partire dalle mamme bolognesi che hanno occupato le elementari dei figli, fino ad arrivare agli studenti universitari che già qualche testa forse canuta, certamente idiota, non ha esitato a definire - sull’onda dell’entusiasmo securitario - “ricettacolo del terrorismo”. C’è da dire che gli universitari non sono direttamente colpiti dalla riforma Gelmini-Tremonti, ma sono investiti piuttosto dall’ultima finanziaria - che prevede tagli per 1.445 milioni di euro in 5 anni - e dall’articolo 16 della legge 133/2008, altresì nota come “legge anti-fannulloni” e capolavoro del mini-ministro Brunetta, in cui si indica la possibilità di tramutare gli atenei in fondazioni di diritto privato e si sancisce di fatto lo smantellamento dell’università e della ricerca.

Nel giro di un mese si sono mobilitate grandi masse, con gli studenti sono scesi in lotta ricercatori e professori e, attraverso lunghissime ma partecipatissime assemblee, si costruisce giorno per giorno la dinamica di protesta. Ci sono le occupazioni e le autogestioni ma ci sono anche lezioni in piazza e quarti d’ora accademici in cui si divulgano i testi delle riforme e s’invitano gli studenti a partecipare. Agli organizzatori non pare vero, ma per la prima volta dopo 30 anni si scorge nuovamente una partecipazione attiva e massiccia negli studenti; e soprattutto si prova a raggiungere le istituzioni dal basso, senza il bisogno di nessuna mediazione politica. Il tam-tam di internet e il semplice passaparola hanno fatto più di quello che avrebbero potuto altisonanti appelli a reti unificate e sono riusciti nell’immane impresa di scuotere una parte di cittadinanza che sembrava relegata nel dimenticatoio della controversa storia italiana.

Certo, il ’77 è passato da un pezzo e l’idea della rivoluzione ha lasciato spazio ad altre modalità di rivendicazione, ma è innegabile che le motivazioni che spingono ed alimentano la nuova protesta siano le stesse motivazioni di disagio sociale: disinvestire sull’istruzione superiore equivale a precarizzare ancor più - se possibile - il futuro già segnato di una generazione. L’aumento delle tasse causerebbe una progressiva e insormontabile barriera all’accesso democratico allo studio; la trasformazione degli atenei in fondazioni private avrebbe una ricaduta decisamente negativa sulla qualità della didattica; il blocco del turn-over dei professori al 20% renderebbe praticamente impossibile per qualunque assistente ambire ad una cattedra; per non parlare poi dei dottorati di ricerca che qui da noi sono i meno pagati d’Europa e che diventerebbero delle semplici mance.

Gli elementi di protesta ci sono quindi tutti, ma il dibattito sulle soluzioni è ancora apertissimo. Da una parte gli studenti e i professori chiedono blocchi della didattica e rinvii delle imminenti inaugurazioni degli anni accademici, dall’altra i rettori e i consigli accademici caldeggiano patti di stabilità con il governo, secondo i quali i finanziamenti andrebbero solo agli atenei più meritori e virtuosi economicamente. Quello che più si contesta al sistema universitario è infatti la presenza di cosiddette “mele marce”, istituti superiori che contravvenendo alla legge dissipano i finanziamenti nella retribuzione del personale e lasciano le briciole alla ricerca e alle borse di studio. E’ il caso delle università dei baroni e, secondo l’Aquis - l’associazione degli atenei più produttivi, fondata lo scorso anno a Bologna - è il caso dei due terzi delle università pubbliche. Insomma secondo i magnifici rettori bisognerebbe distinguere tra università di serie A e di serie B, propendendo economicamente per le prime.

Il problema quindi é, e resta legato, al vil denaro. Denaro che, sebbene manchi come l’acqua nel deserto, si pensa bene di destinare prima alle banche e ai capitani coraggiosi di Alitalia piuttosto che a quelli che l’economia in recessione dovranno risollevarla con le competenze e la qualificazione. Solo un piccolo appunto e un piccolo esempio per i creativi del dicastero delle finanze: a Bologna l’università vedrà tagliati in 5 anni ben 40 milioni di euro; difficile che l’ateneo potrà recuperarli dalle tasse come difficile che gli enti privati - per quanto generosi e disinteressati - provvederanno a coprire il buco con i loro finanziamenti e sponsorizzazioni.

Nell’attesa che i sopraccitati creativi imparino a fare i conti, si preparano ulteriori scioperi e manifestazioni per i prossimi 30 ottobre e 14 novembre. Se questo dovrà essere il canto del cigno dell’università, sarà sicuramente un’ottima esecuzione. Di democrazia.

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