di Eugenio Roscini Vitali

“Non consentirò occupazioni di scuole e università e invierò le forze dell’ordine contro chiunque impedisca lo svolgimento delle lezioni”. Queste le parole del premier Silvio Berlusconi che, preoccupato soprattutto del boicottaggio dei mezzi di comunicazione che - a suo dire - non danno il giusto eco alle sue affermazioni, ha aggiunto: “Avete quattro anni e mezzo per farci il callo, non retrocederò di un millimetro”. Una conferenza stampa esaustiva, un diktak che ha avuto la risonanza che meritava e di cui hanno parlato tutti, giornali e televisioni; la limpida fotografia della situazione in cui versa il Paese: tolleranza zero e diritto minimo garantito, a patto che non esca dagli schemi. Il decreto 137 sulla scuola e l’ultimo di una serie di passi che tende a riportare indietro l’Italia di almeno cinquant’anni: il populismo penale in nome della sicurezza, la militarizzazione delle città, la legge delega sul diritto allo sciopero, il nuovo modello contrattuale nel pubblico impiego e le proposte della Confindustria per un ritorno alle gabbie salariali; solo alcuni esempi che ci lasciano immaginare cosa accadrà nei tempi a venire. Berlusconi è uscito dalla discoteca, ha indossato lo scolapasta e dichiarato guerra al dissenso. Passare alla linea dura ed attaccare ciò che è pubblico con atteggiamenti muscolari è infatti sicuramente sproporzionato e pericoloso e mette in discussione la libertà di espressione e la stessa autonomia universitaria. Di questo ne sono convinti i rettori di tutta Italia che si sono già dichiarati contrari all’intervento delle forze dell’ordine, soprattutto perché sono i primi a ritenere gli studenti italiani capaci di dimostrare pacificamente le loro argomentazioni e il loro dissenso, in modo trasversale ed apolitico. Secondo il premier, invece, non è così: i tagli alla scuola e all’università altro non sono che notizie ingigantite dai media, rei di fare cattiva informazione e di generare ansia e paure immotivate; dietro le “ridottissime” manifestazioni di piazza ci sarebbe poi l’immancabile regia dell’estrema sinistra, questa volta coadiuvata dai centri sociali.

Proteste fuori luogo quindi che il ministro Mariastella Gelmini continua a non capire (non pare l’unica cosa che non riesce a capire, a dire il vero), soprattutto perché a suo dire il decreto non riguarda l’università; un’università che per il centrodestra va comunque svecchiata e di cui vengono sottolineati i cosiddetti sprechi: 170 mila insegnati, 300 sedi distaccate e cinquemilacinquecento corsi di laurea, numeri che il governo considera sproporzionati rispetto alle esigenze dell’università italiana. Poco importa che l’Italia sia fanalino di coda europeo per gli investimenti sulla formazione e sulla ricerca; se si vuole - come il governo vuole - concepire una selezione darwiniana, di classe, sulle future generazioni, è bene tagliare tutto quello permette l’universalità dei diritti, strumento necessario per un futuro possibile per tutti. Anzi, per confermare a tutti che non capisce, la Gelmini ha definito “terroristiche” le proteste.

Quello che più preoccupa è il fatto che il decreto 137 è solo la punta dell’iceberg della ristrutturazione in atto e, se anche fosse ritirato o modificato, rimangono ben altre contestabili proposte. La prima è senza dubbio l'annuncio del governo sul disegno di legge delega che dovrebbe riformare l’attuale regolamentazione del diritto di sciopero nei servizi pubblici. E’ la fase attuale di un progetto che parte da lontano, dalla seconda metà degli anni settanta, quando gran parte del mondo imprenditoriale iniziò a mettere in discussione quanto sancito dallo Statuto dei lavoratori, ritenendo gli scioperi una delle cause prime della crisi economica di quegli anni. Un disegno criptato che venne allo scoperto e colse la sua prima grande vittoria nel 2003, quando boicottando il referendum sull’articolo 18 i lavoratori non seppero trasformare una battaglia giusta in un grande un motivo di lotta comune.

Oggi il diritto allo sciopero è garantito dall’articolo 40 della Costituzione della Repubblica Italiana ed è esercitabile nell'ambito delle leggi che lo regolano, inclusi lo sciopero per solidarietà, a scacchiera, a singhiozzo; oltre a quello per fini politici legati agli interessi dei lavoratori, autorizzato dal 27 dicembre 1974 dalla Corte costituzionale con sentenza n. 290. Il principio è poi rafforzato dalla legge n. 300 sullo Statuto dei lavoratori, articolo 1, libertà di opinione, che recita: “I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge”. Lo sciopero, regolato dalla legge 146/90 e dalle successiva 83/2000, può quindi essere considerato come astensione dal lavoro messa in atto da una rappresentanza di lavoratori, più o meno vasta, che manifesta per la difesa degli interessi giuridici ed economici, sia di categoria che della collettività.

Le linee guida della legge delega per la riforma degli scioperi prevedono invece che l’astensione dal lavoro venga preceduta da un referendum che premetta di verificare il tasso di adesione e la partecipazione individuale preventiva, questo in modo da dare maggiore certezza sui livelli della protesta. Finalità dichiarata? Tutelare le organizzazioni confederali dalla concorrenza “sleale” delle organizzazioni meno rappresentative; dare una migliori informazione per i servizi di pubblica utilità; sapere quanti lavoratori aderiranno allo sciopero in modo da non recare danno ai diritti della persona e, soprattutto, danni irreversibili alle imprese. Manca solo che siano le imprese stesse a dirigere le rivendicazioni.

Il governo prevede inoltre che il ruolo di arbitro e conciliatore, attualmente affidato alla commissione di garanzia, sia assegnato, con delega di autorità sanzionatoria, ai prefetti. Il ministro del Welfare, MaurizioSacconi, incoraggia poi lo sciopero virtuale non come forma di astensione ma come adesione ad un fondo dove i lavoratori potranno versare la loro retribuzione, restituitagli solo in caso di accordo con il datore di lavoro. Nemmeno Licio Gelli aveva pensato a tanto e con tanta fantasia.

Basta questo per capire a cosa stima andando incontro? In un'intervista al quotidiano il Riformista, il ministro Sacconi ha recentemente delineato un altro aspetto della strategia del governo: ha attaccato gli aiuti di Stato alla Fiat, gli interventi per settori o per singole aziende (tralasciando ovviamente i debiti dell’Alitalia finiti sulle tasche dei contribuenti) e ha rivisto le posizioni del governo in materia di taglio delle tasse per i lavoratori, per anni cavallo di battaglia del Popolo delle Libertà. L’ex socialista Sacconi, che nel giugno scorso aveva definito "demenziale" la legge varata dal governo Prodi che impediva il licenziamento delle donne incinte, ha spiegato che spalmare la riduzione fiscale su tutti i redditi, come chiede la Cgil, sarebbe un provvedimento finanziariamente insostenibile; piuttosto sarebbe preferibile detassare del 10% i soli salari di produttività.

Una dichiarazione d’amore verso la Confindustria e il suo nuovo modello contrattuale, che altro non é che una manifesta volontà di limitare l’autonomia dei sindacati e delle categorie e il pericoloso tentativo di tornare alle gabbie salariali, subordinando la crescita della retribuzione alla produttività del sistema economico di settore. Che però, quando più ha guadagnato, più ha licenziato. La lotta di classe, fatta da loro, è redditizia.

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