di Valentina Laviola

Oggi scrivo da giovane italiana, da studentessa iscritta all’Università La Sapienza di Roma, per dar voce ad altri studenti e far sapere al maggior numero possibile di persone cosa sta accadendo e cosa accadrà quando la legge 133 sarà effettiva. Ieri mattina, nell’enorme assemblea che si è tenuta sul piazzale della Minerva, all’interno della città universitaria, alla quale hanno partecipato migliaia di studenti provenienti dalle diverse Facoltà, un professore ci ha detto “Vi hanno rubato il futuro”. Aveva ragione. La frase del titolo campeggiava su uno striscione ieri all’università. Credo sia rappresentativa della voglia che i ragazzi hanno di tornare a possedere il sapere che gli spetta, dell’entusiasmo con il quale credano ancora nell’università e nelle possibilità che questa dovrebbe offrire loro. Credo anche che dimostri il livello di consapevolezza che essi hanno rispetto alle conseguenze pratiche che lo smantellamento dell’istruzione pubblica porterà all’Italia. Siamo la generazione che ha avuto tutto e che non avrà niente: Rispetto ai nostri genitori nati nel dopoguerra o poco dopo, abbiamo goduto di un’infanzia dorata, cullata fra mille giochi e arricchita da un’attenzione nuova alla nostra istruzione; tuttavia, rappresentiamo solo delle grandi speranze che verranno disattese perché i nostri percorsi di studi vengono smantellati sotto i nostri occhi, perché saremo meno competitivi nel mondo del lavoro e, in ogni caso, non avremo mai “il posto fisso”; di conseguenza sarà quasi impossibile avere figli o una pensione, un giorno. In pratica il nostro futuro è programmato sul nulla. Appunto: abbiamo avuto tutto, ma non avremo niente.

È contro queste non-prospettive che i giovani si stanno mobilitando, contro l’ultima mazzata che arriva a colpirci dopo una lunga serie di politiche irresponsabili perpetrate per anni, se non decenni, ai danni del mondo dell’istruzione. Molti dei ragazzi che hanno parlato ieri in rappresentanza delle varie Facoltà hanno tenuto a precisare molto chiaramente i motivi della protesta: non ci stanno a passare per “fannulloni”: per questo motivo si moltiplicano via via le iniziative di presidi temporanei all’interno di alcune aule, le azioni di volantinaggio, le riunioni; perché l’obiettivo primario da raggiungere è che tutti gli studenti siano informati di cosa comporterà la nuova riforma e possano partecipare e schierarsi consapevolmente.

Ci si propone, parlando, informando e confrontandosi con tutti coloro che verranno toccati dalle conseguenze della legge, di dimostrare al Paese e anche al governo come funziona davvero una democrazia: si parla, si discute, non si fanno passare provvedimenti di questa portata ponendo la fiducia al Parlamento, in piena estate, quando le università sono chiuse, gli italiani in vacanza e l’attenzione rivolta altrove. Non si governa senza il consenso dei governati.

Alcune Facoltà più sollecite di altre, quali Psicologia, hanno già prodotto un documento firmato dal preside, dai docenti, dal personale tecnico-amministrativo, oltre che dagli studenti, per chiedere formalmente il blocco temporaneo della didattica quale presa di posizione forte dell’ateneo tutto. I ricercatori, le altre grandi vittime sacrificali, si sono impegnati a rinunciare alle proprie lezioni e i professori a non coprire questa mancanza. È di estrema rilevanza, non solo mediatica; ed è significativo vedere, nel mucchio delle facce dei ragazzi che hanno popolato l’assemblea di ieri, qualche altra faccia, magari con la barba o i capelli grigi, qualcuno vestito in giacca e cravatta. Sono i nostri docenti, quelli che per primi si sono mossi, seguendo la firma del prof. Bevilacqua, per chiedere una risposta concreta al rettore; risposta che, peraltro, stanno ancora aspettando.

Infatti, questa legge non colpisce direttamente solo gli studenti, ma anche il gradino successivo: tutti coloro che cercano di lavorare all’interno dell’università, tutti quei giovani e brillanti cervelli italiani (quelli che all’estero troverebbero riconoscimenti importanti) che vivono nella precarietà perenne, percependo stipendi da fame senza alcuna prospettiva concreta. Beh, loro saranno inchiodati in questa condizione per sempre, perché non saranno mai assunti davvero, non diventeranno mai professori.

Anzi, probabilmente quasi nessuno diventerà più professore perché sarà bloccato quel ciclo naturale che dovrebbe portare ad un ricambio nella classe docente. Invece non ci resta che tenerci stretti gli ormai, in massima parte, anziani professori che già ci sono, e quando questi, per ragioni naturali, ci lasceranno, si é calcolato che in cambio di nove scomparsi circa uno nuovo ne verrà assunto. Qualcuno ha proposto una battuta, tristemente realistica, su un futuro universitario gestito dal “professore unico”, sul modello elementare ultimamente in voga.

Un altro cartellone ieri recitava “libera cultura in libero stato”, gridando che il sapere non è in svendita. Infatti, la geniale soluzione ideata dal “governo-imprenditore” è quella di privatizzare l’università: trasformare, cioè, quello che oggi - o meglio che da secoli - è un bene pubblico, la risorsa ove il Paese coltiva il proprio futuro, in tante fondazioni private le quali, per definizione, non hanno certo a cuore il bene pubblico, bensì il profitto. Una volta che il ministero delle Finanze avrà tagliato i fondi che assicurerebbero il sostentamento degli atenei italiani, questi saranno costretti a dichiarare bancarotta nel giro di due anni al massimo: allora subentrerà qualcuno a raccogliere quello che resta e a cambiare tutto il significato della parola “università” per sempre. Secondo il prof. Bevilacqua, l’art. 16 della legge n. 133 sarebbe da considerarsi incostituzionale: di fatto permette la spoliazione di beni oggi pubblici, compresi gli immobili e le strutture, da parte di un qualsiasi privato; il tutto addirittura esentasse!

L’inevitabile scenario che si proporrebbe è quello di un’istruzione superiore accessibile solo pagando rette spropositate, destinando così a formare la classe dirigente di domani solo i figli della classe dirigente di oggi; la fine dell’istruzione come mezzo di ascesa sociale, l’immobilità, il ritorno al Medioevo quando i figli dei servi della gleba non potevano aspirare che alla posizione del padre. Se i giovani oggi scendono in piazza, bloccano la stazione Termini, manifestano davanti al Ministero è perché ritengono tutto questo inaccettabile, lo fanno per assicurarsi un futuro e per assicurarsi che un futuro migliore rimanga accessibile a tutti.

Durante l’assemblea di ieri è intervenuto il pro-rettore Frati, invocato da molti a dare un segno, prendere una posizione chiara e ferma: se la più grande università d’Europa ha una guida responsabile, che batta un colpo. Il discorso del futuro rettore è stato molto applaudito: quando ha ribadito l’importanza cruciale della ricerca, che riceve oggi in finanziamento solo l’1,1% del PIL, e senza la quale l’Italia è destinata ad un ruolo subalterno in Europa e nel mondo e che i corsi di laurea devono essere fatti per gli studenti, non per trovare poltrone ai professori. La dichiarazione più esplicita è che tutte le università debbano restare pubbliche, che chi pensa di poter privatizzare la scuola, la sanità e la giustizia, ragiona al di fuori dei principi espressi dalla nostra Costituzione. Bene, sembra ci sia piena concordanza con quanto esprimono gli stessi studenti e allora, che cosa ha intenzione di fare? Il blocco temporaneo della didattica, proposto dalla maggioranza degli studenti presenti, ma anche osteggiato da altri, viene rifiutato come “mezzo non idoneo”. Molti chiedono a gran voce una proposta alternativa, “Rettore ci dica allora cosa fare, come muoverci”: niente di fatto, la presa di posizione dei vertici della Sapienza è rimandata, se in buona fede vogliamo credere che ci sarà, al Consiglio che si terrà martedì.

E anche se ieri gli studenti hanno ritenuto necessario portare la proteste fuori dal recinto della città universitaria, farsi sentire nelle strade, dalla gente, per non rimanere isolati, ma spiegare a tutti quanto grave sia il problema, Magnifico Rettore: si ricordi che una risposta, da lei, ce l'aspettiamo.

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