di Giovanni Cecini

C’era una volta l’MSI, movimento ispirato alle tradizioni e ai valori della sconfitta Repubblica Sociale. C’era una volta Giorgio Almirante, Pino Romualdi e Arturo Michelini, tutti esponenti con un pedigree “democratico” e “liberale”. Il primo era stato segretario di redazione del periodico antisemita “La difesa della razza” e alto dirigente del ministero della Cultura Popolare a Salò, gli altri due, tra i vari incarichi e mansioni, erano stati designati anche vice-segretari del partito fascista repubblichino. In barba allo spirito della Repubblica Italiana e al dettato successivo della Costituzione democratica, nel 1946, a differenza degli omologhi di Vichy processati e condannati, essi costituirono un movimento, chiaramente figlio dell’esperienza fascista, in particolar modo di quella più controversa e più meschina, quella del periodo 1943-45 in cui Mussolini, dopo venti anni di regime totalitario, consegnò la politica italiana ai nazisti e si rese quindi responsabile dei loro peggiori crimini. Seguendo questa fede e queste idee, vennero educate le generazioni che si iscrissero alla “Fiamma” e che in linea di principio perseguivano le finalità e gli obiettivi stilati a Verona nel novembre del 1943. Oggi le cose sono cambiate ... non necessariamente in meglio. Dopo la svolta di Fiuggi e il mea culpa di Fini in Israele, più dettato da opportunità politica che da piena convinzione intellettuale, al fianco di un’Alleanza Nazionale, nel cui simbolo ancora campeggia la Fiamma e l’acronimo del Duce, si è andata formando una galassia di partiti e partitini, che non solo non rigettano l’appellativo di fascista, ma dei cui valori si fanno bandiera e motivo di distinzione rispetto al fedifrago Gianfranco, delfino di Almirante che - a detta loro - si starebbe rivoltando nella tomba.

Ecco quindi che la storia della Destra italiana degli ultimi quindici anni si caratterizza per una successione di scissioni, fusioni, alleanze, tutte distinte dalla volontà di ribadire la propria fedeltà all’idea originale, non senza trovare (spesso e volentieri) una collocazione politica che possa comunque inserirli in coalizioni con gli ex camerati traditori. Il caso più singolare è stato quello di Alessandra Mussolini, il cui cognome non può ammettere ad altri di essere più erede del nonno, che ha cambiato partito almeno 4 volte, ma che non ha esitato a ritornare all’ovile berlusconiano, pur di trovare una candidatura.

Nella sostanza sono passati oltre 60 anni dalla condanna politica e storica del fascismo, ma non tutti sembrano aver accettato che esso fosse una vergognosa dittatura e un regime inumano. In una sorta di ventaglio ideologico si ritrovano tutti quei giovani che negli anni Settanta hanno accettato di fare politica con il saluto romano e, quando serviva, anche con il manganello alla cintola.

Oggi, se Gianfranco Fini sentenzia alla platea dei giovani di AN la linea del partito, affermando che sentirsi antifascista è l’unico modo per essere democratici, molti degli esponenti (e della base) dell’ex Movimento Sociale ancora non hanno dimenticato la nostalgia per la camicia nera. E’ passata meno di una settimana da quando il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ha voluto onorare i caduti della Rsi solo perché giudicati combattenti in buona fede e da quando il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha addebitato al fascismo solo la responsabilità delle leggi razziali e dell’«esito antidemocratico di quel regime».

Nella sostanza giustificare tutto il resto, intercorso a partire dal 1919 come movimento politico e dal 1922 come governo dello Stato: gli assassinii e l’incarcerazione degli avversari politici, la ventennale sequenza di provvedimenti liberticidi, il bombardamento propagandistico e culturale, la devastazione fisica e morale del Paese a seguito delle ripetute guerre d’invasione. Come se in Germania o in Francia si volessero giustificare le SS o i militari fedeli a Pétain, solo perché convinti nel loro cuore di combattere per il bene della propria Nazione, indipendentemente dai crimini commessi dai rispettivi governi.

Già queste dichiarazioni sembrerebbero sconvolgenti, tanto da sollecitare la chiarificazione del presidente della Camera, ormai “istituzionalizzato” perché passato per le poltrone di ministro degli Affari Esteri, vicepresidente del Consiglio e appunto primo deputato a Montecitorio, che il suo vecchio camerata Francesco Storace rincara la dose sull’orgoglio di essere fascista: «Con le sue dichiarazioni Fini irresponsabilmente rinfocola odi».

Tutto ciò non può che portare a una serie riflessioni di ordine etico, prima che politico. Come ammonisce l’Avvenire, il partito di Fini, fuso ormai a doppio laccio con Forza Italia nel Popolo delle libertà, ha veramente l’identità e la legittimità morale per fare parte del Partito popolare europeo? I deputati di Centro-destra a Strasburgo hanno piena consapevolezza che si portano in casa politici che in fondo non hanno fatto i conti con la storia, giudicando con tiepidezza il giudizio su Benito Mussolini, criticabile in fondo solo perché alleato di Adolf Hitler.

L’Europa ha fatto i conti con la storia, l’Italia irrimediabilmente ancora no. Sarebbe troppo chiedere a Roma di prendere esempio dalla Francia o dalla Spagna? A Parigi nel giugno del 1995 sono state mandate al macero 17 milioni di banconote stampate e pronte del nuovo taglio dei 200 franchi (per un valore di tre miliardi e mezzo di franchi), solo perché raffiguravano i fratelli Lumiére in odore di collaborazionismo fascista. A Madrid il 18 ottobre 2007 è stata approvata la Legge sulla Memoria, che non solo riabilita le vittime del fascismo e condanna la dittatura franchista, ma prevede anche la rimozione di tutti i monumenti e simboli del passato regime dalle piazze, strade ed edifici pubblici. In Spagna l’economia segna picchi esilaranti, in trenta anni ha fatto passi da gigante e i treni arrivano in orario ... una bella lezione per l’Italia.

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