di Valentina Laviola

Si va delineando il nuovo volto della Sanità italiana con il maxi emendamento alla legge Finanziaria, già approvato alla Camera e in attesa ora che ripassi dal Senato per l’approvazione definitiva. Si faranno dei passi indietro rilevanti sia rispetto al risanamento economico della sanità regionale ottenuto negli ultimi anni, sia rispetto ai nuovi servizi a disposizione dei cittadini introdotti dal precedente ministro Livia Turco. Con le nuove regole, in pratica, cambiano i Lea, cioè i livelli essenziali di assistenza sanitaria: in sostanza, le prestazioni che il Sistema sanitario nazionale è tenuto a garantire (che erano stati invece innalzati dal precedente governo). Ora garantirli spetterà alla discrezionalità - e disponibilità economica - delle singole Regioni. Cadranno, ovviamente vittime dei tagli economici, alcune misure rivolte alle categorie sociali deboli, quali le cure odontoiatriche per gli indigenti, la fornitura di apparecchi acustici e per parlare, una maggiore assistenza ai malati cronici (per esempio le persone colpite da Alzheimer) e per i malati terminali. Per quanto riguarda l’assistenza ospedaliera sarebbero messi a rischio la possibilità di anestesia epidurale per il parto (che le statistiche fotografano come una realtà consolidata nel resto d’Europa) e la diagnosi neonatale di sordità. Sul piano della prevenzione verranno sottratti i fondi che erano stati destinati a programmi per arginare la diffusione di alcol e fumo tra i giovani. Inoltre, si retrocede anche su un campo sensibile come quello delle malattie rare, annullando l’introduzione di nuove diagnosi ed esenzioni relative ad altre 109 patologie; un riconoscimento importante perché l’attenzione a questo tema è scarsa, come i fondi necessari alla ricerca. Spesso si tende a confondere la definizione “rare” con “non rilevanti”, ma questa noncuranza non ne fa automaticamente delle malattie innocue.

L’esempio emblematico su cui è possibile misurare l’irresponsabilità di tale manovra è rappresentato dal fatto che verrà bloccata la somministrazione gratuita del vaccino contro l’HPV – il Papilloma virus, responsabile della quasi totalità dei tumori della cervice uterina. Si tratta di un DNA-virus piuttosto diffuso: ne esistono oltre 120 ceppi diversi, la maggior parte dei quali non procurano lesioni, mentre altri possono rivelarsi estremamente pericolosi, dando vita anche a tumori. Si calcola che in Italia colpisca circa 3500 donne l’anno, 1000 delle quali ne restano vittime. Il vaccino, diffuso negli Stati Uniti già del 2006, è rivolto contro 4 ceppi virali particolarmente aggressivi.

Contrarre il virus è estremamente facile: la trasmissione può avvenire anche per semplice contatto nell’area genitale, senza avere un rapporto completo e si stima, infatti, che una percentuale altissima di donne nel mondo si infettino almeno una volta nella vita, spesso senza conseguenze apprezzabili. Le patologie più gravi sono sviluppate da donne intorno ai 45-50 anni, questo solo perché il virus impiega molto tempo a manifestarsi (anche 20-30 anni), pertanto probabilmente il contagio avviene in giovane età. Per questo motivo, il vaccino - essendo un mezzo di prevenzione - si rivolge soprattutto alle ragazze. Si è osservato, inoltre, che l’effetto positivo della vaccinazione diminuisce notevolmente se il soggetto è già entrato in contatto con qualche ceppo del virus. Ecco spiegato come mai si era scelto di privilegiare la fascia d’età pre-adolescenziale, per avere la maggior garanzia possibile che i soggetti non avessero ancora avuto rapporti sessuali e quindi non fossero state esposte a tale rischio.

Una volta ottenuta, nel febbraio 2007, l’approvazione dell’Agenzia italiana del farmaco, l’Italia è stato il primo Paese europeo a pianificare una strategia di vaccinazione pubblica su larga scala per questo virus. A partire dal marzo 2008, infatti, è stato reso disponibile per le ragazzine di 11-12 anni, in forma del tutto gratuita, presso le strutture pubbliche uniformemente sul territorio nazionale. Per tutte le altre donne, era comunque possibile avere il vaccino a pagamento.
Un’idea lungimirante - una volta tanto nel nostro Paese - tesa a far crescere una popolazione di donne immunizzata, in attesa di produrre un vaccino anche per i maschi, solitamente portatori del virus. L’iniziativa era sostenuta dallo stanziamento di 30 milioni di euro nella Finanziaria, quale contributo aggiuntivo alle risorse già previste nei fondi per l’assistenza farmaceutica; altri 40 milioni sarebbero venuti dai capitoli di bilancio del Ministero della Salute.

Si pensi che erano state avanzate richieste affinché il Sistema sanitario nazionale si facesse carico delle vaccinazioni anche per tutte le donne giovani o non ancora infettate meno abbienti, ma ecco invece quale risposta giunge dal nuovo governo: la mutuabilità del vaccino, per chiunque, è stata esclusa. Il risultato sarà che un numero ristretto di ragazze vi accederà realmente, quelle che potranno permettersi di spendere diverse centinaia di euro per le tre dosi necessarie. Il ministro Turco, in occasione della conferenza stampa del 22 febbraio scorso per la presentazione della campagna vaccinale, aveva emblematicamente sottolineato quanto l’attenzione per la salute e la tutela della donna rappresenti il vero discrimine di una società moderna e democratica.

I tagli annunciati riguarderanno anche la diminuzione dei posti letto e dell’organico ospedaliero, pertanto anche i medici, come già i sindacati, sono sul piede di guerra. Inoltre, insorgono compatti i presidenti delle Regioni (Formigoni in testa), che dovranno far fronte all’onere che lo Stato scaricherà sulle loro spalle. “Una manovra demenziale”, l’ha definita Enrico Rossi, assessore alla sanità della Toscana e coordinatore nazionale della Conferenza delle Regioni, “che rovina il lavoro di risanamento finanziario degli ultimi anni”.

I consiglieri regionali di Sinistra Democratica Massimo Mezzetti e Ugo Mazza hanno già firmato una risoluzione per assicurare l’impegno dell’Emilia-Romagna a non ridurre la qualità dei servizi che vengono erogati dalla sanità direttamente gestita. Iniziativa encomiabile, ma possibile solo nelle Regioni più ricche ed attente a questi temi. Cosa accadrà nelle altre? Si allargherà il divario tra i benestanti, che potranno accedere alle stesse prestazioni nelle strutture private, e i poveri, che invece avranno sempre meno copertura. È il destino di un’Italia che preferisce costruire il suo modello di stato sociale su criteri di gestione aziendale, piuttosto che su quelli di un Paese unitario, fondato sull’universalità dei diritti per tutti.

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