Nonostante le possibili implicazioni del voto più difficile per Erdoğan in due decenni alla guida del suo paese, il dato forse di maggiore rilievo del ciclo elettorale appena concluso con il ballottaggio per le presidenziali di domenica in Turchia sembra essere piuttosto il fallimento della proposta di riorientamento strategico verso Occidente promosso dall’opposizione e dal suo candidato, Kemal Kiliçdaroğlu. Tutto ciò che ha dovuto fare il presidente in carica per riconfermarsi dopo il risultato inaspettatamente positivo del primo turno è stato in definitiva ribadire l’impegno per una politica estera – ed economica – indipendente, nonché accentuare i toni populisti ed evitare gli eccessi xenofobi degli ambienti ultra-nazionalisti, sposati invece quasi del tutto dal suo rivale.

 

I dati ufficiali del voto hanno assegnato a Erdoğan il 52,18% dei consensi e il 47,82% a Kiliçdaroğlu. Quest’ultimo ha incassato circa 830 mila voti in più rispetto al primo turno, mentre Erdoğan ha chiuso con un saldo positivo di 600 mila. La differenza non è stata sufficiente a spostare gli equilibri, visto che il presidente uscente ha sopravanzato il candidato dell’opposizione per oltre 2,3 milioni di voti.

C’erano in realtà molti dubbi sul fatto che un’eventuale vittoria di Kiliçdaroğlu avrebbe portato, tra l’altro, alla rottura dei rapporti tra Ankara e Mosca o al riallineamento della Turchia alla NATO, visti gli interessi in gioco e i cambiamenti ormai consolidati degli equilibri strategici eurasiatici. Il candidato dell’Alleanza della Nazione aveva però accentuato gli aspetti filo-atlantisti della sua agenda elettorale, arrivando anche a denunciare un’inesistente interferenza russa nel voto in Turchia.

La scelta si è dimostrata perdente e non poteva essere diversamente se si pensa all’attitudine della maggioranza della popolazione turca nei confronti degli Stati Uniti e dell’Occidente. L’identificazione con la NATO equivale d’altronde a condividere e a partecipare alle provocazioni anti-russe nel quadro di un conflitto, come quello Ucraino, che ha causato gravissimi problemi economici e portato il pianeta sull’orlo di una conflagrazione nucleare. Allo stesso tempo, gli elettori turchi comprendono come i rapporti con la Russia abbiano contribuito in buona parte alla sicurezza energetica del loro paese, così come a raccogliere una serie di benefici economici, quanto meno nel periodo precedente alla crisi in corso.

L’altra iniziativa risultata perdente di Kiliçdaroğlu in vista del ballottaggio è l’abbraccio con il Partito della Vittoria di estrema destra di Ümit Özdağ per assicurarsi il sostegno dei suoi (pochi) elettori. Il leader di questo partito aveva acconsentito ad appoggiare lo sfidante di Erdoğan a patto di scrivere nel programma di governo l’impegno a deportare i milioni di rifugiati siriani ospitati dalla Turchia e ad abbandonare qualsiasi compromesso nella battaglia contro il “terrorismo curdo”. Quest’ultima promessa ha inevitabilmente causato una sensibile flessione dei consensi per Kiliçdaroğlu nelle province sud-orientali dove è presente una consistente minoranza curda.

Per quanto riguarda la questione dei rifugiati, anche Erdoğan minaccia da tempo di rimpatriarne il maggior numero possibile in Siria. Non solo, il presidente turco aveva a sua volta stipulato un’intesa elettorale per il ballottaggio con il candidato piazzatosi terzo al primo turno, Sinan Oğan, anch’egli attestato su posizioni ultra-nazionaliste e xenofobe. Oğan aveva offerto il suo appoggio al candidato che si sarebbe impegnato a espellere i rifugiati siriani, ma ha alla fine optato per Erdoğan nonostante i due non abbiano sottoscritto alcun accordo formale sulla questione, consentendo al presidente in carica di presentarsi come alternativa relativamente più moderata sul tema dell’immigrazione.

In linea generale, Kiliçdaroğlu ha provato dunque a recuperare terreno dopo il voto del 14 maggio con una strategia più aggressiva e “divisiva”, sopravvalutando probabilmente il desiderio di cambiamento dentro la società turca. L’opposizione e varie voci in Occidente non hanno mancato poi di denunciare brogli e irregolarità nelle operazioni di voto. Nel primo turno, ad esempio, era apparso insolito che nelle aree devastate dal terremoto di febbraio fosse stata registrata un’affluenza superiore all’80% o che l’alleato del partito Giustizia e Sviluppo (AKP) di Erdoğan, il partito del Movimento Nazionalista (MHP) di estrema destra, avesse fatto segnare risultati inaspettati nelle province foltamente popolate dalla minoranza curda.

È anche evidente che, come in molti altri paesi, inclusi quelli occidentali, Erdoğan abbia beneficiato del fatto di essere il presidente in carica, sia in termini di popolarità sia di controllo dei mezzi di comunicazione ufficiali. In ogni caso, la sterzata verso destra seguita al primo turno non ha giovato a un Kiliçdaroğlu già penalizzato dall’essere dipinto – in parte correttamente – come una sorta di burattino dell’Occidente.

Populismo e anti-imperialismo sono state le carte vincenti di Erdoğan, anche se il secondo di questi due fattori ha nella realtà dei fatti contorni più sfumati. La retorica anti-occidentale di Erdoğan è in primo luogo un’arma elettorale. Non ci sono da parte sua ad esempio piani concreti per uscire dalla NATO. Inoltre, il suo governo ha acconsentito alla ratifica dell’ingresso della Finlandia nell’Alleanza. Gli ostacoli che Ankara continua a porre alla candidatura della Svezia sono invece motivati da questioni di natura politica da collegare soprattutto alla “minaccia” curda.

Anche in merito al conflitto russo-ucraino, la Turchia, a differenza di quanto sostengono spesso i governi occidentali, non appoggia Mosca ma cerca di conservare una posizione neutrale o, per meglio dire, equidistante. A guidare le scelte di Erdoğan sono cioè gli interessi turchi. Da un lato, Ankara fornisce armi – come i droni “Bayraktar” – all’Ucraina e dall’altro favorisce il consolidamento della partnership pressoché a tutto tondo con la Russia, rifiutando di adeguarsi al regime sanzionatorio occidentale.

Questa “politica estera indipendente”, celebrata da Putin nel suo messaggio di congratulazioni inviato a Erdoğan dopo la vittoria al ballottaggio, rimarrà quindi con ogni probabilità uno degli elementi caratterizzanti anche del terzo mandato alla presidenza della Turchia. Che le priorità di Ankara siano localizzate più a oriente che a occidente dipende poi dalle dinamiche che stanno rimescolando gli equilibri globali favorendo l’emergere di un ordine multipolare.

Nel riassumere i fattori che stanno alla base del processo di riposizionamento internazionale della Turchia promosso in due decenni da Erdoğan, la giornalista turca Ceyda Karan in un’analisi pre-elettorale pubblicata settimana scorsa dalla testata on-line libanese The Cradle ha ricordato che Ankara “necessita di almeno 200 miliardi di dollari di risorse”. Per questo motivo, “la direzione della politica estera di Erdoğan sarà determinata dalle opportunità economiche” e, di conseguenza il presidente turco “non verrà visto come un partner affidabile da nessun paese”, sia nel campo atlantista sia in quello eurasiatico.

Questa attitudine di Erdoğan resterà tale in funzione proprio della pesante crisi economica e monetaria che sta attraversando la Turchia e che rischia di mettere in discussione le aspirazioni da potenza regionale che il presidente ha attentamente coltivato. Proprio in questa prospettiva, il rapporto con la Russia, al centro dell’attenzione di media e governi occidentali nel periodo pre-elettorale, continuerà ad avere una dimensione tutta particolare.

Grazie al lavoro di Erdoğan e Putin, i due paesi sono oggi legati da solide e crescenti relazioni che producono benefici per entrambi in molti settori, da quello turistico a quello energetico (gas, nucleare), dalle costruzioni al commercio, dall’industria agli investimenti, fino a quello militare (S-400) e diplomatico (Siria). L’inclinazione pragmatica di entrambi i governi fa tuttavia in modo che non manchino anche elementi di scontro o interessi divergenti, osservabili in vari ambiti. Un esempio recentissimo è appunto l’Ucraina e l’assistenza militare di Ankara al regime di Zelensky. A questo proposito, praticamente in concomitanza con il successo elettorale di Erdoğan e i complimenti espressi da Putin, si è diffusa la notizia della distruzione quasi competa da parte della Russia della flotta di droni “Bayraktar TB2” turchi in dotazione delle forze armate ucraine.

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