Il recente devastante terremoto in Medio Oriente ha riportato in qualche modo la Siria al centro dell’attenzione internazionale. Il suo presidente, Bashar al-Assad, ha in particolare ricevuto espressioni di solidarietà e aiuti umanitari concreti dai leader di paesi finora ostili o cautamente avviati verso la normalizzazione dei rapporti bilaterali. Il reintegro di Damasco nel panorama politico arabo è un processo in atto già da qualche anno, ma proprio il catastrofico evento naturale di inizio febbraio potrebbe dargli la spinta decisiva, soprattutto se dovessero verificarsi progressi significativi nelle relazioni con l’Arabia Saudita.

 

Al culmine di due intense settimane di scambi diplomatici che hanno visto protagonista il presidente Assad, lo scorso fine settimana, durante l’annuale conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera, è arrivata una dichiarazione del ministro degli esteri saudita, Faisal bin Farhan Al Saud, che ha sorpreso non pochi osservatori. Il rappresentante della monarchia wahhabita ha spiegato che, “all’interno del Consiglio per la Cooperazione del Golfo [Persico], ma anche nel [resto del] mondo arabo, esiste un consenso sull’insostenibilità dello status quo” riguardo alla Siria. Per questa ragione, ha continuato il ministro saudita, “a un certo punto ci dovrà essere un dialogo con il governo di Damasco”.

Faisal ha precisato che dovranno essere raggiunti risultati quanto meno negli ambiti più importanti, come quello umanitario o del ritorno in patria dei rifugiati siriani scappati dalla guerra. Queste parole fanno seguito alle iniziative concrete prese da Riyadh dopo il terremoto. I reali sauditi hanno ad esempio inviato per la prima volta dall’inizio del conflitto un aereo nel territorio controllato dalle forze governative. In questo modo sono arrivati in Siria aiuti determinanti per le vittime del sisma, ma c’è da credere che l’iniziativa punti ad aprire la strada a sviluppi di natura politica.

Il ministro Faisal, sempre a Monaco di Baviera, ha detto di non poter confermare le voci che ipotizzano una sua visita a Damasco nel prossimo futuro, ma la vaghezza delle risposte alle domande dei giornalisti su questo argomento ha alimentato ulteriormente la curiosità degli addetti ai lavori. Storicamente, i rapporti tra Siria e Arabia Saudita sono sempre stati problematici. Il gelo totale era però calato solo nel 2012, quando Riyadh aveva appoggiato finanziariamente e militarmente una fazione dei “ribelli” armati anti-Assad nella guerra fomentata dall’Occidente e, appunto, da alcuni regimi sunniti. Solo negli ultimi anni questi paesi sono in varia misura tornati a parlare con Assad, dopo cioè avere preso atto del fallimento dei loro piani per il cambio di regime a Damasco.

Nei giorni scorsi, Assad ha comunque intrattenuto conversazioni in prima persona con altri leader che avevano voltato le spalle al suo governo dopo l’inizio della guerra. Lunedì si è recato in visita in Oman, mentre particolarmente significativa era stata la telefonata con il presidente egiziano al-Sisi poche ore dopo il terremoto. Anche in questo caso, almeno a livello ufficiale, il colloquio ha riguardato la questione degli aiuti di emergenza, ma resta ugualmente il dato politico dell’evento. Dall’approdo alla presidenza nel 2014 in seguito al colpo di stato dell’anno precedente, al-Sisi non aveva mai intrattenuto una conversazione diretta con Assad, anche se i rapporti tra Egitto e Siria non si sono mai interrotti del tutto.

L’elenco continua poi con la Giordania, il cui ministro degli Esteri una decina di giorni dopo il sisma si è recato in visita in Siria per la prima volta in dodici anni. Il capo della diplomazia giordana, Ayman Safadi, ha incontrato il suo omologo siriano, Faisal Mekdad, mentre qualche giorno più tardi il sovrano Abdullah II, ha espresso telefonicamente al presidente Assad le proprie condoglianze per i morti sotto le macerie.

Durante la guerra, la Giordania ha rappresentato uno snodo logistico determinante per le forze di opposizione siriane e i paesi che le hanno sostenute o che tuttora le sostengono. Amman aveva ripreso i contatti a tutti gli effetti con Damasco nel 2021, alla luce della necessità di trovare una soluzione a una crisi economica e sociale ingigantita dalla presenza di oltre 650 mila rifugiati siriani dentro i confini giordani. Il governo della monarchia hashemita aveva riaperto l’ambasciata a Damasco già nel 2019 e, in seguito, anche il principale valico di frontiera al confine siriano per riattivare gli scambi commerciali.

Ancora di più della Turchia di Erdogan, il caso probabilmente più eclatante è però quello degli Emirati Arabi Uniti (EAU). Questo paese è finora il più attivo nel cercare di ristabilire relazioni a tutti campo con la Siria. Le iniziative emiratine erano state inaugurate già nel 2018 con la riapertura della rappresentanza diplomatica a Damasco e, tre anni più tardi, con l’incontro tra il ministro degli Esteri, Abdallah bin Zayed al-Nayhan, e il presidente Assad. Successivamente c’era stato il lancio di altri progetti di collaborazione in vista della ricostruzione della Siria e anche dopo il terremoto gli Emirati hanno promesso e recapitato aiuti al governo di Damasco. Lo stesso Assad nel marzo dello scorso anno si era recato in visita ad Abu Dhabi in quella che era stata la prima trasferta del presidente siriano in un paese arabo dal 2011.

La stampa internazionale ha dato parecchio spazio in queste settimane all’attività diplomatica di Assad e quasi sempre sono stati messi in risalto gli sforzi del presidente siriano al fine di sfruttare la crisi prodotta dal sisma per rompere l’isolamento del suo governo. È evidente che la tragedia che è costata distruzione e migliaia di morti alla Siria rende necessario l’impegno per intercettare aiuti in maniera rapida, tanto più se si considera la situazione di partenza di un paese letteralmente devastato da oltre un decennio di guerra orchestrata a tavolino dagli Stati Uniti e dai loro alleati mediorientali.

Al netto di questa realtà, sembra tuttavia più verosimile la tesi opposta, ovvero che siano i paesi arabi entrati in contatto in questi giorni con il governo di Damasco ad avere approfittato della situazione per dare una spinta al processo di normalizzazione dei rapporti con la Siria. In molti hanno fatto notare comunque che i regimi in questione sono in larga misura quelli che negli ultimi anni si erano già mossi in questa direzione, ma la rilevanza politica della dinamica a cui si sta assistendo non cambia di molto.

È piuttosto più utile indagare le ragioni del disgelo nei confronti di Assad, chiaramente accelerato dagli eventi legati al terremoto. La questione è di estrema importanza se si considera l’opposizione apparentemente irriducibile degli Stati Uniti a qualsiasi riavvicinamento al legittimo governo di Damasco. Ogni paese della regione persegue obiettivi specifici nella normalizzazione con la Siria, ma alcune tendenze generali si possono facilmente individuare.

La prima è il declino della posizione degli Stati Uniti in Medio Oriente, che alimenta inevitabilmente forze centrifughe, vale a dire la promozione da parte dei singoli attori regionali dei rispettivi interessi strategici anche se eventualmente divergenti da quelli di Washington. Collegato a ciò è il desiderio di stabilizzare il quadro mediorientale dopo più di dieci anni di guerra e alla luce dello spreco di risorse nel tentativo di rovesciare il governo di Assad.

Riflesso della parabola discendente USA è la crescita dell’influenza della Russia, diretta conseguenza proprio dell’intervento militare in appoggio della Siria, del tutto determinante nel ribaltare gli equilibri della guerra contro le formazioni jihadiste armate dall’Occidente, dalla Turchia e da vari regimi arabi. Non è un caso infatti che paesi come gli Emirati e l’Arabia Saudita abbiano approfondito i legami con Mosca in questi anni. Per entrambi i regimi sunniti, inoltre, va tenuta presenta la rivalità con l’Iran che dal 2011 ha rafforzato enormemente la propria posizione in Siria, con le ovvie conseguenze su tutto l’arco della resistenza sciita.

Per le monarchie del Golfo, lo sdoganamento di Assad, dopo l’appoggio a una guerra sanguinosa contro il suo governo, è in definitiva una questione pragmatica collegata alla competizione regionale e a interessi puramente economici. Il vero ostacolo alla definitiva normalizzazione dei rapporti con Damasco resta l’apparato delle sanzioni americane, nonché l’occupazione illegale di una parte del territorio siriano da parte di militari e “contractors” USA in collaborazione con le milizie curde.

Questi fattori impediscono di fatto l’avvio della ricostruzione siriana e il ristabilimento di pieni rapporti diplomatici e commerciali con gli altri paesi del Medio Oriente. Una presa di posizione più esplicita in questo senso da parte dell’Arabia Saudita, assieme forse alla riammissione nella Lega Araba, potrebbero però a breve cambiare la situazione e gettare finalmente le basi per il superamento dello stato di guerra imposto alla Siria negli ultimi dodici lunghissimi anni.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy