Il leader laburista britannico, Keir Starmer, ha cacciato di fatto dal partito il suo predecessore e, virtualmente il politico più popolare della sinistra d’oltremanica, Jeremy Corbyn. La decisione rappresenta la logica conseguenza di una penosa involuzione del “Labour” dopo che la leadership dello stesso Corbyn aveva fatto intravedere, sia pure per un periodo molto breve, una possibile svolta progressista dello storico partito britannico.

 

La deriva destrorsa dei laburisti è stata a tutti gli effetti ammessa da Starmer nel discorso con cui questa settimana ha liquidato Corbyn. Starmer ha affermato che “il Partito Laburista odierno non è più quello del 2019 [sotto la guida di Corbyn] e non tornerà mai più indietro”. In altre parole, il “Labour” ha operato una svolta definitiva verso destra, liberandosi di tutti i residui di progressismo che ancora lo caratterizzavano, quanto meno all’interno della propria leadership.

Rivolgendosi direttamente all’ex numero uno e ai suoi alleati, Starmer ha aggiunto: “Se non vi piace [questa nuova realtà]; se non vi piacciono i cambiamenti che abbiamo fatto, la porta è aperta e potete andarvene”. La resa dei conti tra i laburisti è stata possibile, almeno a livello formale, grazie alla colossale caccia alle streghe contro la sinistra del partito in base all’accusa, interamente fabbricata, di anti-semitismo. Ovvero una campagna ferocissima condotto contro membri del partito di qualsiasi livello che, come Corbyn, hanno espresso nel corso degli anni anche una minima critica nei confronti di Israele o un qualche sostegno alla causa palestinese.

Un’indagine altamente politicizzata della commissione britannica per l’Uguaglianza e i Diritti Umani era stata avviata nel 2020 ed aveva appunto accertato l’esistenza del problema dell’antisemitismo nel partito, favorito anche dall’atteggiamento troppo permissivo dei suoi vertici, ovviamente nel periodo in cui Corbyn ne era il segretario. La commissione aveva indicato una serie di provvedimenti da adottare per risolvere il presunto problema e proprio questa settimana ha stabilito che la leadership laburista ha fatto a sufficienza per mettere fine alla sorta di periodo di supervisione che durava da oltre due anni.

Starmer ha dunque stabilito che Jeremy Corbyn non sarà candidato dal Partito Laburista nelle prossime elezioni parlamentari in Gran Bretagna. L’ex leader, da parte sua, ha emesso un comunicato per condannare il provvedimento nei suoi confronti, lasciando intendere che potrebbe essere presentato un qualche ricorso nel prossimo futuro. Corbyn era già stato rimosso dal gruppo parlamentare laburista nell’ottobre del 2020 sempre per il suo atteggiamento ritenuto troppo permissivo nei confronti della “piaga” dell’anti-semitismo nel partito.

Nel suo intervento pubblico, Starmer ha spiegato le differenze tra il suo partito e quello di Corbyn. Quello attuale non sarebbe più il partito del “dogmatismo”, ma del “patriottismo”, non più un partito “di protesta”, ma “del servizio pubblico”. Inoltre, nonostante la dedizione assoluta di Starmer e la sua leadership ai poteri forti, agli Stati Uniti e alla NATO, a suo dire il “Labour” non sarà “mai più ostaggio di interessi particolari”.

La campagna che Starmer ha fatto propria fin dall’inizio del suo mandato nella primavera del 2020 è sostanzialmente un affare dei vertici del Partito Laburista e trova poco seguito tra gli iscritti. Tant’è vero che dalla sua elezione alla guida del partito, i laburisti hanno perso almeno 140 mila tesserati. Questa emorragia era seguita all’impennata dell’entusiasmo per il successo a valanga di Corbyn nel 2015. Contro la sua leadership era però subito iniziata una campagna di boicottaggio promossa dall’ala “blairita” del partito, culminata nel tracollo elettorale del 2019.

Corbyn non aveva peraltro mai rivolto nessun appello alla base del partito per combattere seriamente la destra del “Labour”. Al contrario, la sua strategia mirava a un compromesso con gli oppositori interni, ma le continue concessioni per allentare la pressione erano sfociate in attacchi ancora sempre più feroci. Dopo l’arrivo di Starmer alla segreteria, l’offensiva contro la sinistra interna non si è fermata e svariati esponenti del partito sono stati espulsi con la solita assurda accusa di anti-semitismo.

I parlamentari più vicini a Corbyn si sono nel frattempo in buona parte piegati alla linea di Starmer e, dopo una spaccatura del gruppo “socialista”, si è verificato un sostanziale allineamento alle posizione ultra-atlantiste della leadership in seguito all’esplosione del conflitto in Ucraina nel febbraio dello scorso anno. Nonostante la sua storia di militante pacifista e anti-NATO, Corbyn non ha mai rinunciato a cercare la riammissione in un partito spostatosi nettamente a destra, né ha mostrato interesse a promuovere un movimento alternativo malgrado il seguito che aveva raccolto ai tempi del suo mandato alla guida del “Labour”.

L’attitudine complessiva nei confronti della vicenda Corbyn degli ambienti generalmente riconducibili alla sinistra del Partito Laburista è stata in definitiva scoraggiante nei giorni scorsi. Il clima soffocante aggravatosi dall’inizio delle operazioni militari russe ha finito per estinguere quasi del tutto l’opposizione alla leadership di Starmer e al pensiero unico pro-NATO. Ciò che prevale sono per lo più sterili appelli all’unità del partito che fanno emergere opportunismo e disfattismo politico, nel tentativo di accreditare il “Labour”, agli occhi dei poteri forti in Gran Bretagna e a Washington, come forza di governo “responsabile” votata, né più né meno dei conservatori, all’austerity e al militarismo.

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