Il nuovo peggioramento della situazione in Kosovo rischia di precipitare l’Europa orientale in un altro pericoloso conflitto armato dopo quello in corso dallo scorso febbraio in Ucraina. Negli ultimi giorni, gli animi si sono surriscaldati in seguito all’arresto di un ex poliziotto serbo che vive in Kosovo, mettendo fine a un periodo di calma durato appena un paio di settimane. L’aggravarsi della crisi nella regione che la Serbia ritiene tuttora parte integrante del proprio territorio ha origine nell’aggressione NATO di oltre due decenni fa, ma è strettamente collegata anche agli eventi russo-ucraini e all’offensiva occidentale in corso contro il governo di Mosca.

 

La detenzione di Dejan Pantic da parte dei suoi ex colleghi della polizia kosovara era avvenuta sabato scorso in un punto di frontiera con la Serbia. L’ex agente è accusato di avere attaccato un convoglio delle forze di sicurezza albanesi mentre stavano conducendo un’operazione nel distretto a maggioranza serba di Mitrovica. Per tutta risposta, la popolazione serba del Kosovo settentrionale aveva eretto barricate per impedire il passaggio alla polizia albanese. Il primo ministro kosovaro, Albin Kurti, aveva allora imposto un ultimatum per rimuovere queste barriere entro la serata di domenica. Il presidente serbo, Alexandar Vučić, aveva da parte sua mobilitato le forze armate verso il confine meridionale e annunciato l’imminente richiesta alla NATO di posizionare un migliaio di militari in territorio kosovaro.

Vučić ha messo in guardia più volte dalla pericolosa escalation in atto, invitando i serbi da entrambe le parti del confine a mantenere la calma. La richiesta all’Alleanza per il ritorno di un contingente serbo in Kosovo dovrebbe avvenire formalmente il 15 dicembre. La NATO opera la missione KFOR in Kosovo, della quale fanno parte anche militari albanesi. Questo particolare, assieme al sostegno pressoché totale dell’Alleanza per Pristina, rende praticamente certo il rifiuto dell’istanza di Belgrado.

La mossa appare ad ogni modo come un tentativo da parte di Vučić di districarsi da una situazione complicata con il minore danno possibile. La docente di studi balcanici dell’Accademia Russa delle Scienze, Ekaterina Entina, in un’intervista al giornale russo Vzglyad ha spiegato che la richiesta di Vučić punta a “garantire la sicurezza” della minoranza serba in Kosovo senza “incorrere in un attacco della NATO”. Nella stessa analisi pubblicata da Vzglyad, il politologo Oleg Bondarenko del sito Balkanist ha ricordato a questo proposito che, secondo la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza ONU adottata nel 1999, la Serbia avrebbe in teoria facoltà di inviare un contingente militare limitato in Kosovo semplicemente notificando la decisione alle Nazioni Unite.

Il presidente serbo si sta muovendo inoltre per raccogliere qualche appoggio sul piano diplomatico. La stessa scelta della data del 15 dicembre ha un valore simbolico, visto che coincide con quella indicata dal governo di Pristina per sottoporre a Bruxelles una richiesta ufficiale di adesione del Kosovo all’Unione Europea. Belgrado ha fatto sapere a questo proposito di avere inviato una comunicazione ai leader dei paesi UE che non riconoscono l’indipendenza del Kosovo – Grecia, Spagna, Cipro, Romania e Slovacchia – per invitarli a bloccare l’ingresso di Pristina nell’Unione.

Questo aspetto della vicenda conferma come il governo kosovaro continui ad agire in violazione degli accordi presi con Belgrado e la comunità internazionale per risolvere la crisi in quest’area dei Balcani. Ciononostante, negli episodi delle ultime settimane l’Europa e gli Stati Uniti hanno garantito puntualmente il loro appoggio a Pristina. Secondo il cosiddetto Accordo di Washington del settembre 2020, il governo del Kosovo s’impegnava ad esempio a non chiedere l’ingresso in nessuna organizzazione internazionale, anche se per un periodo di un anno. In cambio, la Serbia accettava di non incoraggiare nessun paese terzo a revocare il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo.

Un’altra azione illegale è avvenuta la scorsa settimana, cioè l’ingresso delle forze di polizia albanesi nelle quattro municipalità del nord del Kosovo a maggioranza serba. Questa iniziativa è in contravvenzione dell’Accordo di Bruxelles del 2013 e, come già ricordato, è stata all’origine della protesta della minoranza serba e della nuova escalation in corso. L’accordo prevedeva la creazione di un’area autonoma a maggioranza serba in Kosovo, ma la leadership albanese non ha mai implementato i termini concordati nella capitale belga.

Tutte le indicazioni dell’ultimo periodo fanno pensare a uno schema ben preciso fatto di provocazioni studiate a tavolino tra Pristina e i suoi sponsor occidentali, allo scopo di avvelenare ulteriormente il clima tra serbi e albanesi sia per trascinare la Russia in una nuova crisi sia per fare pressioni sul governo di Belgrado. Com’è noto, Serbia e Russia sono unite da una solidissima partnership e, nonostante l’Europa e gli Stati Uniti abbiano fatto recentemente ricorso anche ad aperte minacce, il governo del presidente Vučić si è sempre rifiutato di prendere le distanze da Mosca o di condannare l’intervento militare in Ucraina.

La lettura più ovvia del recente riacutizzarsi della crisi in Kosovo ha a che fare appunto con il tentativo da parte di Washington e Bruxelles di moltiplicare artificialmente il rischio di un conflitto armato tra Pristina e Belgrado in modo da convincere il governo serbo a riconoscere finalmente l’indipendenza del Kosovo. Il tutto scommettendo sul mancato intervento in appoggio di Belgrado di una Russia impegnata sul fronte ucraino.

L’Occidente conta inoltre sulla situazione precaria in cui si è venuto a trovare il presidente Vučić, il quale non può acconsentire a una de-escalation senza contropartite alla luce del peso che la questione del Kosovo ha per la maggioranza della popolazione serba. Allo stesso tempo, lo scivolamento in uno scontro armato con gli albanesi potrebbe avere conseguenze ugualmente disastrose per Belgrado, vista la presenza delle forze NATO che agirebbero in appoggio del governo di Pristina. In Kosovo, va ricordato, è presente anche una “missione” di peacekeeping dell’Unione Europea (EULEX).

L’approccio ricattatorio alla Serbia è d’altra parte tipico dell’Europa e degli USA, soprattutto dopo il venir meno dell’appeal dell’ingresso nell’UE. Il dato più importante dell’intera vicenda resta comunque la responsabilità dell’Occidente nell’infiammare questa crisi nei Balcani, creata prima con le bombe del 1999 e poi con la concessione dell’indipendenza al Kosovo. Oggi, questo fronte ha più di una similarità con la crisi ucraina, incluso il rischio di trasformarsi in una guerra rovinosa. Una di queste è l’atteggiamento dei governi occidentali, apparentemente impegnati per l’implementazione degli accordi sottoscritti da Pristina e Belgrado, ma in realtà attivi nell’istigare la leadership albanese per mettere in atto provocazioni nei confronti della Serbia.

Resta da vedere fino a dove l’Occidente intenderà spingere la crisi. Lo scorso mese di novembre, un altro motivo di scontro era emerso con la disputa sulle targhe automobilistiche rilasciate dal governo di Belgrado per la minoranza serba del Kosovo. Pristina aveva fissato un ultimatum oltre il quale queste targhe sarebbero finite fuori legge e i rispettivi proprietari sottoposti a sanzioni. In quel caso gli sponsor del governo kosovaro avevano convinto quest’ultimo ad abbandonare il piano, ma la relativa pace è durata appunto solo fino a qualche giorno fa.

Le prospettive per la Serbia non appaiono incoraggianti, anche alla luce della situazione in cui si trova l’alleato russo. Se il ministero degli Esteri di Mosca ha garantito che la guerra in Ucraina non determinerà il venir meno dell’aiuto a Belgrado in caso di necessità, non è chiaro quali azioni concrete deciderà eventualmente il Cremlino. Il già citato commento ai fatti del Kosovo del giornale russo Vzglyad ha infatti dipinto uno scenario più realista rispetto a quello ipotizzato dai proclami ufficiali.

Politicamente, la Russia non esiterà a sostenere la Serbia. Sul lato pratico, gli scenari potrebbero risultare invece diversi. Nell’attuale situazione, si legge nell’articolo, il massimo che potrà essere offerto a Vučić sarà tutt’al più “la convocazione di una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza ONU”, dove un voto su una risoluzione favorevole a Belgrado avrebbe un esito del tutto “ovvio”.

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